Chi sono le «Terf», le femministe «critiche del genere» che si oppongono al ddl Zan- Corriere.it
Uno dei luoghi comuni nella discussione del Ddl Zan, il disegno di legge contro l’omotransfobia e gli altri reati d’odio, è che vi si oppongano anche «le femministe» e «le associazioni lesbiche». Come molti luoghi comuni non è vero: vi si oppone una minoranza di femministe, con una netta connotazione generazionale (sono soprattutto, anche se non solo, donne over 50), e un’unica associazione lesbica, Arcilesbica, rimasta ormai isolata nell’associazionismo lgbt+. La maggior parte delle associazioni lesbiche italiane infatti ha preso posizione a favore del Ddl Zan, così come lo ha fatto la parte più corposa dei gruppi e delle militanti femministe, soprattutto quelle più giovani. Le femministe critiche del genere, meglio conosciute come Terf («Trans Exclusionary Radical Feminists», «femministe radicali trans escludenti») — un acronimo nato nei circoli femministi degli anni 70 che loro rifiutano definendosi solo «femministe radicali» — hanno infatti una visibilità sovradimensionata rispetto alla loro diffusione reale nel movimento delle donne e in quello lgbt+, soprattutto nei media tradizionali, grazie a due motivi principali.
Uno è il fatto che le sue esponenti di punta vengono per lo più dal mondo dei media, di cui conoscono bene i meccanismi, come la regista e scrittrice Cristina Comencini e la giornalista Marina Terragni (autrice di «Gli uomini ci rubano tutto»). L’altra è l’alleanza con il mondo del cattolicesimo di destra: Arcilesbica, per esempio, era quasi scomparsa negli ultimi anni sia in termini numerici — l’associazione non rende pubblici i dati sulle sue tesserate — che di visibilità pubblica. Ma grazie alle sue posizioni critiche nei confronti delle persone transgender e contro la gestazione per altri, rilanciate spesso da siti e testate che si riconoscono nel conservatorismo cattolico, ha acquisito una rilevanza mediatica che non aveva mai avuto. Il conflitto tra questa minoranza e il resto del movimento femminista e lgbt+ però non è irrilevante, perché mette in luce alcuni dei nodi principali che riguardano la condizione delle donne in Italia e in generale nel mondo più ricco.
Per capirlo appieno è utile vedere come si è sviluppato questo «femminismo radicale». L’attivismo delle «femministe critiche del genere», o Terf, italiane è legato infatti a doppio filo con quello britannico, che infatti esso cita costantemente come proprio riferimento politico e culturale, e che vede nella scrittrice JK Rowling la propria esponente più nota. Mentre negli Stati Uniti l’opposizione alle istanze lgbt+ e in particolare transgender è guidata soprattutto dalla destra religiosa, in Gran Bretagna è portata avanti da attiviste che vengono dal mondo progressista e della sinistra. Come è possibile? In un’inchiesta su Lux la giornalista Katie J.M. Baker spiega che la fazione femminista «critica del genere» si è sviluppata quando nel Paese veniva discusso il Gender Recognition Act («Legge per il riconoscimento di genere», o Gra) del 2004, una legge che sul modello di altri Paesi, come Argentina, Irlanda e Portogallo, avrebbe permesso alle persone trans di cambiare il loro genere legale sui documenti senza l’obbligo della sterilizzazione forzata e senza una diagnosi medica. La cosa interessante è che in Gran Bretagna la legge per il riconoscimento di genere — come già il matrimonio egualitario, le nozze gay — era stata proposta dal governo conservatore dei Tory, allora guidato da Theresa May. E quindi anche per questo trovava “naturalmente” opposizione a sinistra.
A diffondere le idee delle femministe trans-escludenti in Gran Bretagna, però, è stato soprattutto un sito, Mumsnet, la «rete delle mamme», un social network creato 21 anni fa che verteva soprattutto — scrive Baker — su «consigli su come disincrostare la lavastoviglie e associato a mamme compiaciute e snob che confrontavano passeggini di fascia alta e si lamentavano del cane del vicino che mangiava le loro begonie». Mumsnet si definisce «la comunità online più popolare del Regno Unito “per i genitori”», ma le ricerca mostrano che quasi tutti i 7 milioni di Mumsnetters (le utenti di Mumsnet) sono donne. «Più specificamente — spiega ancora Baker —, si ritiene che siano per lo più donne bianche, borghesi ed eterosessuali» di reddito medio alto. La sua base di utenti «è considerata ricca e influente, ed è molto attraente sia per i commercianti che per i politici» (vi ha tenuto incontri anche Hillary Clinton).
È proprio l’esperienza della maternità condivisa online, secondo Baker, che ha portato le utenti di Mumsnet a radicalizzarsi contro le donne transgender, che non considerano tali e definiscono spesso «uomini mascherati». «Leggendo una discussione dopo l’altra, ho notato che molte delle donne che postavano hanno scritto di essersi sentite di nuovo prive di diritti e isolate dopo aver partorito; buttate fuori da una società in cui avevano precedentemente goduto di potere in virtù della loro relativa ricchezza e istruzione. Organizzandosi intorno a questo tema “tabù” stavano sperimentando la solidarietà e il senso di avere uno scopo che era mancato nelle loro vite post parto — racconta Baker — . “Non sto dicendo alle persone trans che sono sbagliate perché sono trans, sono arrabbiata perché le donne vengono chiamate transfobiche se dicono che le loro funzioni biologiche sono solo loro”, ha scritto una donna in un thread di giugno 2020 intitolato “Pro Women, Not Anti Trans - Why Biology Is Important” (“Pro donne, no anti trans. Perché la biologia è importante”). Ha continuato: “Non si tratta di genere, si tratta di sesso e anatomia e di come influenzano le donne ogni giorno, e di quanto sia dannatamente ingiusto per gli altri negare i nostri corpi, come funzionano o le nostre opinioni perché non sono considerate inclusive per coloro che non potranno mai essere biologicamente gli stessi”».
«Essere incinta, partorire e allattare sono l’unico momento della mia vita in cui ho sentito una giusta consapevolezza di essere femmina» scrive un’altra utente. «Non intendo in senso di identità di genere, ma in senso di “ho un corpo femminile e sto facendo qualcosa che solo una persona con un corpo femminile può fare”».
L’insistenza sull’importanza del legame biologico nella maternità è anche il tema ricorrente delle attiviste Terf italiane. In Italia però, a differenza che nel Regno Unito, lo hanno sostenuto soprattutto a proposito della gestazione per altri (gpa). Non è un caso che le «femministe radicali» italiane se la siano presa soprattutto con i gay che ricorrono alla maternità surrogata, che pure sono una minoranza rispetto alle coppie etero. Non dipende solo dal fatto che i gay sono più visibili (non possono fingersi genitori biologici dei bambini che nascono da madri surrogate). Ma anche perché — come ha detto con la chiarezza intellettuale che la contraddistingue la filosofa Luisa Muraro —: la gpa dei gay «fa sparire le mamme». Priva l’atto biologico del partorire di quel valore simbolico — il Materno — intorno al quale questa corrente femminista costruisce l’identità delle donne.
Secondo Baker insomma le community online hanno radicalizzato le donne fornendo loro un «capro espiatorio» (le persone transgender) a un malessere che è motivato da questioni molto reali. «Alcune di queste nuove Mumsnetters “gender critical” erano donne relativamente privilegiate che non si erano mai sentite emarginate fino a quando non hanno partorito e si sono sentite isolate nelle loro famiglie nucleari e (giustamente!) indignate per la mancanza di sostegno alle madri nel Regno Unito» scrive. «Il forum sui diritti delle donne di Mumsnet non ha solo offerto alle donne uno spazio sicuro per organizzarsi. Fornendo una piattaforma che tollerava l’ideologia Terf, ha anche consegnato alle utenti un comodo capro espiatorio per tutti i loro problemi: non l’austerity, non la misoginia, ma la relativamente piccola ed estremamente marginalizzata e oppressa popolazione trans».
In una società in cui le donne hanno fatto passi avanti nella rivendicazione di diritti e opportunità, la gravidanza e la maternità rimangono ancora uno scoglio che rigetta le donne nella solitudine (e nella sensazione di una condizione unica) perché non ci sono servizi adeguati per chi ha figli piccoli. Manca una cultura della condivisione e della responsabilità comune — anche sociale (gli asili, una società che non sottometta la vita al lavoro) —nei confronti della genitorialità. Ed è proprio qui l’equivoco di fondo delle «femministe critiche del genere». Non è tornando all’idea di sesso che riusciranno a uscire dall’isolamento a cui la società consegna le donne facendone le uniche depositarie della cura dei figli. La soluzione non sta nell’attribuire alla riproduzione biologica la fonte di legittimità del valore delle donne, ma nel condividere la cura dei bambini (e degli anziani) a prescindere dal genere di appartenenza.
Il concetto di genere, storicamente, è stato il più grande strumento di emancipazione delle donne. Sintetizzato nella famosa frase di Simone de Beauvoir («Donne non si nasce, si diventa») è servito a emancipare le donne dal loro destino biologico. Ha permesso di capire che nascere con i cromosomi XY o i genitali femminili non significa avere un libretto di istruzioni per la vita che verrà: le donne sono libere di riempire quella vita come vogliono. Le nuove generazioni hanno portato questa emancipazione un passo più in là: sanno che quei cromosomi o quell’anatomia non obbligano a un orientamento sessuale. E neppure necessariamente a definirsi donne (o uomini). E infatti ci sono sempre più persone transgender che rifiutano di essere definite in base a una dicotomia di genere. Questo spiega la frattura delle «femministe radicali» con le nuove generazioni. Questo spiega perché un rapper maestro dei social come Fedez ha potuto dare voce alle istanze di quei ragazzi e quelle ragazze: «rappresenta — come nota lo scrittore Jonathan Bazzi su Domani — anche una nuova generazione di genitori, più liberi, in grado di anteporre il bene dei figli al copione che la società ha predisposto per loro». Perché parlare di genere non significa negare la libertà delle donne, ma potenziarla.
(Questo articolo è tratto dalla newsletter «Il Punto» del Corriere della Sera. Per riceverla potete iscrivervi qui)
5 maggio 2021 (modifica il 5 maggio 2021 | 23:32)
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