Le donne afghane in ostaggio- Corriere.it
Vent’anni fa il mondo si accorse di milioni di donne costrette in una prigione di stoffa. Il burqa azzurro, giallo, rosso divenne il simbolo dell’arretratezza dell’Afghanistan, ma anche una delle ragioni per giustificare l’intervento internazionale.La lotta al burqa garantì alla guerra la simpatia degli elettorati democratici. É logico prevedere che se i Talebani vincessero, le donne e i loro diritti sarebbero le prime vittime. Tanti sacrifici, anche italiani, per tornare alla casella di partenza? Ne valeva la pena? La condizione delle donne afghane è stata vittima di guerra o, come in questi ultimi 20 anni, medaglia da appuntarsi al petto. Un ritorno talebano potrebbe trasformarla in moneta di scambio.
Prima dei talebani
Negli Anni ’70, almeno l’80 per cento degli afghani viveva di ciò che coltivava senza sapere leggere o scrivere. Del rimanente, solo la metà era alfabetizzato. Le figlie dell’élite si fotografavano in minigonna davanti all’Università, ma il 99% dei matrimoni era combinato e Gulsom 17 anni è una delle 50 vittime della bomba a Kabul
la famiglia dello sposo «comprava» la ragazza. Nel 1978 il governo sotto l’influenza di Mosca fissò per legge il «prezzo della sposa» ad un valore simbolico. Il femminismo sovietico voleva liberare le donne afghane, ma fu un autogol perché, in assenza di pensioni, gli anziani erano a carico dei figli maschi e la «vendita delle figlie» era il contributo femminile alla vecchiaia dei genitori. I «combattenti della Guerra Santa», mujaheddin, raccolsero consensi anche reclamando la libertà del «prezzo delle spose». L’Afghanistan è in guerra dall’anno successivo il varo di quella legge. L’agricoltura abbandonata, il Paese desertificato e alla fame, con 8 milioni di profughi e 2 di morti, l’importante era sopravvivere, l’emancipazione femminile non la priorità.
Con i talebani
Gli «studenti del Corano» pongono fine alla guerra civile tra i mujaheddin che avevano battuto i sovietici. Permettono di tornare ai campi, a mangiare. Con loro al governo dal 1996 l’educazione delle bambine doveva fermarsi agli 8 anni quando diventava proibito ogni contatto con maschi che non fossero parenti. Vietate anche le visite dei medici così la mortalità femminile si impennò. Le donne potevano comparire in pubblico solo coperte dal burqa e senza tacchi. Le scarpe non potevano essere bianche. La vita media delle donne scese a 40/42 anni contro i 48 degli uomini. Il reddito pro capite era di 0,47 dollari al giorno. In tutto il Paese c’erano 50mila automobili.
La condizione femminile in Afghanistan
Dopo i talebani
L’aspettativa di vita è salita a circa 60 anni. Tre milioni e mezzo di bambine sono iscritte a scuola, 100mila ragazze all’università. Il budget statale è lievitato grazie alle donazioni internazionali dai 27 milioni dell’era talebana a miliardi di dollari. Improvvisamente si sono potute fare moltissime cose. Eppure, ancora oggi, ci sono altre 3 milioni di bimbe fuori da scuola e solo un’adolescente su tre sa leggere e scrivere contro uno su due se maschio. Il 70% dei matrimoni è combinato (e pagato) e un parto su due avviene in casa. In un Paese con 30 milioni di abitanti solo 4mila donne hanno la patente.
I resti sul luogo dell’attentato di sabato alla scuola di Kabul
Dopo il ritiro Usa
Gli ultimi decreti firmati dallo scomparso mullah Omar (capo e fondatore del movimento) riconoscevano che «l’istruzione moderna è importante per l’Afghanistan» e che le «donne hanno diritto alla proprietà privata, all’eredità, all’educazione, alla salute, a scegliere il marito, alla sicurezza e a una buona vita». Era il 2014. Il mullah senza un occhio non aveva cambiato idea, semplicemente non avrebbe potuto controllare aree del Paese senza l’aiuto di Ong che provvedessero a ospedali, scuole, strade creando consenso. Oggi un afghano su tre ha il telefonino. Gli stessi Talebani usano Twitter, apprezzano gli hotel di lusso e producono video patinati. Ci sono donne al tavolo delle trattative e i barbuti integralisti non se ne vanno. Dovessero governare, anche i talebani avrebbero bisogno di soldi stranieri. Nel 2001 venivano soprattutto da Pakistan e Al Qaeda interessati a un Afghanistan arretrato. Domani basterà seguire i dollari per capire che tipo di Paese vorrà il «donatore». Le donne saranno ancora un volta in ostaggio del «grande gioco» sul Paese. (Andrea Nicastro)
«La pace arriva dall’istruzione femminile»
«L’Afghanistan non vedrà mai pace senza che vengano assicurati i diritti delle donne, per primo quello all’istruzione». Malalai Joya, attivista, nel lontano 2003 è stata eletta alla grande assemblea, la Loya jirga. «L’attacco alla scuola è responsabilità di tutti: dei talebani, dell’Isis (che altro non sono i vecchi talebani che si sono riciclati), le potenze straniere che hanno occupato questo Paese senza fare nulla, del governo corrotto. Nessuno è innocente», spiega. Oggi, dopo aver denunciato la corruzione del sistema ed essere stata allontanata dalla vita politica, è costretta a nascondersi. «In Afghanistan, il solo fatto di essere una donna ti rende un bersaglio». Ma una speranza resta. Ed è rappresentata dalle persone. «Conosco un uomo che ogni giorno percorre 14 chilometri in moto per accompagnare le figlie a scuola».
9 maggio 2021 (modifica il 9 maggio 2021 | 22:20)
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