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La violazione del diritto di aborto

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

Quando scattano i presupposti per l’inadempimento medico che impedisce il ricorso all’interruzione della gravidanza. Come e quando ottenere il risarcimento.

La legge, in determinate circostanze, riconosce ad una donna la possibilità di interrompere la gravidanza. Sono passati, ormai, più di 45 anni da quando la Corte Costituzionale diede il via libera al ricorso all’aborto per motivi molto gravi. Tre anni dopo, il Parlamento approvava la legge 194 con cui veniva regolamentato il diritto ad interrompere la gravidanza e, ancora, tre anni dopo, gli italiani confermavano questa scelta con il referendum del 17 maggio 1981. Stando così le cose, viene punita la violazione del diritto di aborto. In quale modo? Esiste in questi casi il risarcimento del danno?

Per rispondere a queste domande bisogna vedere non solo che cosa dice la legge 194 ma anche come si è espressa in merito la giurisprudenza. La Cassazione, ad esempio, ha stabilito a suo tempo che per avere diritto al risarcimento in questi casi non è sufficiente la mancata informazione del medico riguardo alle possibili anomalie o malformazioni del feto ma ci vuole anche la prova della sussistenza delle condizioni previste dalla legge. Altre sentenze hanno seguito questo principio.

Vediamo, allora, come deve essere tutelato il diritto all’aborto e che cos’è previsto in caso di violazione di tale diritto.

Diritto all’aborto: cosa prevede la legge

Il diritto all’aborto è regolato dalla legge 194 del 1978. Due anni prima, il Partito Radicale ed il Centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto (il Cisa) avevano dato il via ad una mobilitazione con la quale erano state raccolte 700mila firme per un referendum mirato ad abrogare gli articoli del Codice penale che riguardavano i reati di «aborto su donna consenziente, di istigazione all’aborto, di atti abortivi su donna ritenuta incinta, di sterilizzazione, di incitamento a pratiche contro la procreazione, di contagio da sifilide o da blenorragia». La normativa è stata confermata con un referendum nel 1981.

La legge, però, pone dei limiti al diritto di aborto. È possibile interrompere la gravidanza, infatti:

  • entro i primi 90 giorni di gestazione, in una struttura pubblica;
  • tra il quarto ed il quinto mese di gestazione solo per motivi terapeutici.

Tuttavia, non si deve pensare che la 194 sia soltanto una legge «pro-aborto»: lo stesso testo spinge ad istituire dei consultori per informare le donne sui loro diritti e sui servizi a cui può avere accesso e per contribuire al superamento dei motivi che la spingono verso l’interruzione della gravidanza.

La legge, inoltre, riconosce l’anonimato alla donna che ricorre all’interruzione volontaria della gravidanza e l’obiezione di coscienza al ginecologo. Quest’ultima, però, non è consentita quando l’aborto si renda necessario per salvare la vita della donna in imminente pericolo. La mamma, inoltre, ha il diritto di affidare il bambino all’ospedale per un’eventuale adozione.

Diritto all’aborto: quando viene violato?

La violazione del diritto all’aborto avviene quando non vengono rispettati i margini indicati dalla legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza.

Ricordiamo che è possibile ricorrere all’aborto entro 90 giorni dal concepimento per:

  • un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna;
  • una situazione di disagio socio-economico dei genitori o della donna:
  • delle particolari circostanze del concepimento (ad esempio, un caso di violenza sessuale);
  • una previsione di anomalia o malformazione del nascituro.

Inoltre, è consentito dopo i 90 giorni dal concepimento in caso di:

  • pericolo di vita della donna;
  • insussistenza della possibilità di vita autonoma del feto e, contemporaneamente, di un processo patologico in atto per la madre che possa degenerare in un danno grave per la sua salute.

Viene violato il diritto all’aborto quando la donna non è informata di questi rischi o quando non è diagnosticata una malformazione del feto. Casi che impediscono l’interruzione della gravidanza e che danno diritto al riconoscimento di un risarcimento economico del danno provocato al bambino e alla madre o ai genitori.

Tuttavia, la Cassazione ha precisato che non si deve accertare se nella donna ci sia un processo patologico che metta a rischio la sua salute psichica ma se il fatto di essere informata sulle condizioni del feto avrebbe potuto determinare durante il periodo di attesa l’insorgere del processo patologico.

Sempre la Cassazione ha stabilito quest’altro principio: «Non spetta alla mamma provare che quando è maturato l’inadempimento del medico il feto non era ancora pervenuto alla condizione della possibilità di vita autonoma, spetta al medico provare il contrario».

In altre parole: se il medico si accorge durante i primi tre mesi di gravidanza che il feto ha un’anomalia e non lo dice alla mamma, può essere ipotizzata la violazione del diritto all’aborto, in quanto toglie alla mamma la possibilità di decidere autonomamente se interrompere o meno la gravidanza.

Se, invece, l’anomalia viene diagnosticata dopo il terzo mese, occorrerà verificare se ci sono gli elementi dettati dalla legge per stabilire tale violazione.

Diritto all’aborto: quando c’è il risarcimento?

È ancora una volta la Cassazione a riconoscere a Sezioni Unite il diritto della madre e del bambino al risarcimento del danno in virtù del «diritto alla salute, all’integrità psicofisica e all’uguaglianza delle pari opportunità» per il negato diritto a «non nascere se non sani» e per la mancata occasione di ricorrere all’aborto di cui avrebbe potuto usufruire la madre se non ci fosse stata una diagnosi omessa o non sufficientemente accurata [1].

Il risarcimento, peraltro, non viene riconosciuto in automatico di fronte all’inadempimento dell’obbligo di corretta informazione, ma bisogna provare che sussistono le condizioni previste dalla legge 194.

Se il medico non ha, colpevolmente, rispettato i suoi doveri, il risarcimento deve includere:

  • il danno fisico subìto dal bambino;
  • il danno patrimoniale che comprende tutte le spese sostenute e da sostenere in futuro;
  • la perdita della chance, ovvero delle possibilità che la vita riserva ad una persona sana;
  • il danno psichico subìto dalla madre;
  • il danno subìto dai prossimi congiunti, cioè anche dal padre.

Il risarcimento va riconosciuto anche quando l’aborto sarebbe stato impraticabile, per compensare il danno psicologico subìto dai genitori nel momento in cui nasce il loro bambino non sano: una corretta informazione al momento giusto, infatti, potrebbe permettere alla madre e al padre di prepararsi psicologicamente a tale evento.

Ai fini del risarcimento, l’onere della prova va assolto dalla madre dimostrando:

  • il contratto con la struttura ospedaliera e la mancata informazione da parte del medico della malformazione del feto;
  • il nesso di causalità tra la condotta omissiva del personale sanitario e il danno fisico o anche soltanto psichico da lei subìto;
  • la sussistenza dei criteri stabiliti dalla legge per procedere all’aborto terapeutico;
  • l’esistenza dei danni non patrimoniali come conseguenza dell’inadempimento del medico.

note

[1] Cass. sent. n. 25767/2015.

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