"A dieci anni ero già femminista": da Parma a New York, l'impegno di Silvia Federici per i diritti delle donne
Il punto d’origine della riflessione di Silvia Federici, una delle più influenti filosofe femministe del panorama internazionale, affonda nel terreno di un’infanzia e di una adolescenza trascorse tra Parma e Casalbellotto, nella fattoria al di là del Po dove Federici da bambina trovò rifugio con la sua famiglia, sfollata per sfuggire ai bombardamenti.
A partire da queste prime finestre aperte su un interno familiare e su un contesto comunitario, la filosofa ha svelato la palude di disuguaglianza in cui la vita delle donne spesso si arena o si inabissa.
E lo ha svelato fin dai primi anni Settanta, con mezzo secolo di anticipo rispetto al momento in cui, anche a causa della pandemia, lo stato di contraddizione in cui versa l’esperienza quotidiana delle donne è esploso, mostrando la sua virulenta pervasività.
Le idee di Federici, oggi di acuta attualità, vengono riprese e diffuse dalle più importanti testate giornalistiche: - Il lockdown ha mostrato come l’economia sfrutti le donne.
E lei lo sapeva già - è il titolo dell’articolo, a firma della scrittrice Jordan Kisner, dedicato dal New York Times alla filosofa che "da decenni ci avverte di ciò che accade quando si svaluta il lavoro domestico".
Nata a Parma nel 1942, dopo la laurea in Lingue, a 25 anni Federici si trasferisce con una borsa di studio a Buffalo per completare il percorso che la porterà alla seconda laurea in Filosofia con un lavoro di tesi, assegnatole da Luciano Anceschi, su T.S. Eliot.
Nel 1972 è tra le fondatrici di Wages for Housework, primo collettivo internazionale a rivendicare una retribuzione per il "lavoro riproduttivo", espressione con la quale la studiosa indica l’enorme carico di lavoro che permette ai membri di una società di crescere, essere nutriti, puliti, restare in salute e lavorare. Una forma di sfruttamento delle donne nascosta dalla mistificazione che trasforma il lavoro non pagato in "lavoro d’amore", svolto per vocazione naturale.
Raggiunta in video-chiamata nella sua casa newyorchese, le cui pareti sono ricoperte di libri, Federici, che ha insegnato all’Università di Port Harcourt in Nigeria e all’Università di New York, torna col pensiero agli anni dell’infanzia e al primo incontro con figure e racconti – la madre e il suo lavoro ricorsivo come la tessitura della tela di Penelope, il padre professore di filosofia al liceo classico Romagnosi, l’impegno comunitario delle donne nella campagna, la creatività della terra - che agiranno poi potentemente sul piano della germinazione di un pensiero rivolto a trasformare il mondo nella convinzione che il grado zero della rivoluzione debba partire dalle case e parlare il linguaggio delle donne.
"Avevo poco più di un anno quando la mia famiglia ha dovuto lasciare Parma. La sera i miei genitori non si cambiavano per poter scappare subito quando il cielo veniva illuminato dai bengala: per sfuggire ai bombardamenti, siamo sfollati in campagna. Sono stati anni di apprendimento rispetto alla condizione delle donne e di contatto felice con la natura".
Quando ha iniziato a riflettere sulla condizione femminile?
"A dieci anni ero già femminista, pur non conoscendo questa parola: sentivo come pesante il continuo ricordarmi che ero una bambina, una ragazza, e che per questo non potevo fare alcune cose mentre ne dovevo fare altre. È stato molto importante osservare il ruolo delle donne intorno a me, a cominciare da nostra madre che era infaticabile. Sentivo fortissimo il suo rammarico per il fatto che il suo lavoro non veniva apprezzato, spesso neppure da noi figlie che lottavamo per rifiutare le mansioni domestiche. I discorsi che poi abbiamo fatto nel movimento femminista, li ho ascoltati per la prima volta nella mia famiglia. Ricordo le conversazioni tra mio padre e mia madre: lei si lamentava del fatto che il suo lavoro fosse invisibile e si domandava anche perché non fosse pagato. Il mio femminismo ha radici lontane nel rifiuto della svalutazione del lavoro delle donne".
Cosa significava nascere femmina nell’Italia del secondo dopoguerra?
"In quegli anni l’Italia era un paese molto patriarcale. Ma l’autoritarismo maschile non è finito con la fine del fascismo: ha continuato ad agire permeando tutti gli aspetti della cultura e della vita quotidiana. Intorno ai 12 anni mi sono resa conto che non potevo più sfuggire al fatto che sarei stata una donna e ho sentito questa condizione come un carico pesante: mi sentivo intrappolata. In casa vedevo che il personaggio importante, significativo, era mio padre: durante l’adolescenza ho guardato a lui come a un riferimento perché era un insegnante, conosceva la storia e parlava di politica".
In Genere e capitale, così come in altri suoi scritti, femminismo e critica al capitalismo si intrecciano: in che modo le due lotte sono sorelle?
"Osservando la svalutazione del lavoro delle donne ho appreso a oppormi, anche politicamente e socialmente, a questo sistema sociale ed economico: la svalutazione del lavoro riproduttivo è stata una finestra da cui vedere i problemi di fondo di questa società. Il non riconoscimento dei lavori che riproducono la vita, a mio avviso, è intrecciato alla logica che governa la società capitalista che considera produttiva la fabbricazione di armi e non considera invece produttivi il lavoro e le attività che ricreano la vita e la capacità di lavorare. Il mio è un femminismo che vuole una società governata da una logica diversa. Un femminismo che, come dicono le compagne dell’America latina, pone il valore della vita umana al centro".
Quale strada considera percorribile per realizzare questa politica?
"Le strade per un vero cambiamento sono due: un diverso uso della ricchezza sociale e una riorganizzazione in senso comunitario del lavoro riproduttivo. A partire dagli anni Settanta si è invece disinvestito continuamente nel sociale: a New York sono stati chiusi molti ospedali in quanto ritenuti non abbastanza redditizi; oggi gli asili nido, un tempo quasi gratuiti, costano moltissimo; in tutta l’America sono stati chiusi centri per anziani. Le case di cura finanziate dallo Stato sono diventate aree di disastro già prima del Covid, con continue denunce di soprusi e lavoratori esasperati da pesanti tagli al personale: e alla fine succede che i pazienti vengono legati al letto, sedati da psicofarmaci"
"Per arginare questo scandalo, la ricchezza sociale va incanalata al servizio della scuola, della salute pubblica e del lavoro riproduttivo. L’altra strada passa dalla riorganizzazione in senso collettivo del lavoro di riproduzione, oggi estremamente oppressivo. Moltissime donne preferiscono uscire di casa per lavorare e avere un minimo di socialità perché il lavoro domestico le isola. Il lavoro di cura deve essere riorganizzato in senso comunitario, in forme che creano legami affettivi e un tessuto sociale entro il quale le donne non siano più isolate".
La pandemia ha acuito l’isolamento delle donne tra le mura domestiche: questa crisi può portare a una svolta?
"La grande paura, oggi, è che la pandemia sia usata per una ristrutturazione che rimandi a casa le donne ad accollarsi quote maggiori di lavoro domestico: negli Usa, 5 milioni di donne hanno lasciato il lavoro extra-domestico. Molte sono state costrette a fare questa scelta per occuparsi dei figli dal momento che asili e scuole erano chiusi. Questo esaspera una tendenza che era già in atto prima della pandemia: moltissimo lavoro di riproduzione è tornato in famiglia a cominciare da quello di cura della salute. La speranza è che questa crisi esplodente, in cui le donne sono esasperate dalla gestione del tele-lavoro, dei figli a casa da seguire e magari di genitori anziani da curare, possa portare a una svolta, svelando la dura condizione in cui si trovano le donne nel dover svolgere un doppio, a volte anche triplo lavoro".
Il femminismo ha puntato soprattutto sulla emancipazione della donna attraverso il lavoro fuori casa, lasciando sullo sfondo le rivendicazioni per il lavoro domestico. Se le donne oggi arrivano a svolgere un doppio o triplo turno di lavoro, fuori e dentro casa, lo si deve anche alla incapacità di unirsi in una lotta condivisa?
"Quando abbiamo lanciato la campagna internazionale a favore del salario per il lavoro domestico, le donne della classe operaia furono subito d’accordo. Ma molte femministe, che vedevano altre possibilità e pensavano in forma celebrativa al lavoro extra-domestico come più creativo, non ci hanno sostenuto. Col tempo abbiamo visto che lavorare fuori casa non significa smettere di lavorare in casa: per la maggioranza delle donne ha significato invece un cumulo di lavoro immenso. Questo rischio noi lo avevamo previsto e denunciato mille volte. Negli Usa, le donne che ricevevano un sussidio perché erano senza lavoro e avevano bambini piccoli, sono state additate come parassite e non c’è stato un movimento femminista che si sia mosso per sostenerle affermando che anche quello riproduttivo è un vero lavoro dal quale non traggono beneficio solo i nostri figli o mariti ma anche chi impiega queste persone. Al di là della retorica sulla famiglia, i rapporti personali sono anche politici perché le nostre vite sono state strutturate per fini che sono economici".
Come ha raccontato recentemente al New York Times, per tre anni non ha potuto scrivere perché le sue energie sono state del tutto assorbite dalla cura di sua madre: anche questa occasione personale ha acceso una riflessione politica?
"Sì, certo. Ero appena andata in pensione quando mia madre si è ammalata e non poteva muoversi. Sono venuta a Parma per poterla seguire, insieme a mia sorella: nonostante avessimo anche l’aiuto di un’infermiera che veniva la mattina e la sera, lavoravamo tutto il giorno. In questo periodo, in cui ero del tutto assorbita dal lavoro di cura, ho riflettuto moltissimo: pensavo alle migliaia di donne che sono imprigionate in casa, magari senza possibilità di un aiuto, e che quotidianamente affrontano crisi per cui non sono preparate. Ho sperimentato in via diretta la mancanza di strutture che permettono di non disperarti. Anche per questo credo che il lavoro riproduttivo debba tornare a organizzarsi in forme comunitarie".
Nel suo libro Reincantare il mondo parla di relazioni comunitarie che, "reinventando la vita", riescono a contrastare ingiustizie sociali ed economiche. Attraverso quali esperienze è possibile contrastare quello che Max Weber ha definito come "un processo irreversibile di disincantamento del mondo"?
"Quando parlo di re-incantare il mondo mi riferisco alla scoperta di logiche diverse da quelle imposte dallo sviluppo capitalista, logiche che possano ricongiungere ciò che il capitalismo ha diviso a partire dal nostro rapporto con gli altri, con la natura e con il nostro stesso corpo. Reinventare la vita significa, in questo senso, costruire società fondate sull’uso comune delle ricchezze naturali. La prima volta che ho vissuto in un’atmosfera comunitaria è stata quando ero bambina: la fattoria nella quale eravamo andati a vivere era gestita da due sorelle che svolgevano insieme a mia madre quasi tutte le attività, dal bucato alla cura della casa e della campagna. Ho ritrovato lo stesso modello molti anni dopo in America Latina, nelle aree periferiche popolate da persone di comunità indigene espulse dalle campagne che, dopo essersi appropriati di pezzi di terra, hanno trasferito in zone urbane l’esperienza comunitaria dando vita a cucine popolari e orti urbani. Anche a New York negli anni Ottanta sono nati orti urbani grazie a donne migranti che venivano da terre in cui il lavoro riproduttivo era comunitario".
Un pensiero che incontra anche la difesa dell'ambiente.
"Per me, re-incantare il mondo vuol dire recuperare il senso della creatività dei nostri rapporti con gli altri e con la natura e contrastare la crescente meccanizzazione dei nostri corpi, delle nostre menti e dei nostri rapporti con gli altri. Come ho scritto in Calibano e la Strega, ancora prima di industrializzare l'organizzazione del lavoro, il capitalismo ha trasformare il nostro corpo in una macchina, ci ha sempre più separato dal mondo della natura e degli animali, ci ha insegnato a diffidare degli altri, a vederli come una minaccia e non come un fonte di ricchezza sociale. Re-incantare il mondo significa recuperare un mondo in cui non si distruggano le foreste, non si soffochino i mari nella plastica, non si riempiano i fiumi e i terreni di sostanze chimiche, e si recuperi il senso della nostra interdipendenza rispetto agli altri e alla natura".