Convenzione di Istanbul, sui diritti delle donne ancora troppe esitazioni
Simona Granati - Corbis via Corbis via Getty Images
La Convenzione di Istanbul ha compiuto 10 anni. Si tratta di uno strumento fondamentale nel contrasto alla violenza, fisica e verbale, nei confronti delle donne. Un Trattato internazionale che segna un autentico spartiacque, in quanto non si limita al profilo sanzionatorio e repressivo ma introduce percorsi di prevenzione e sensibilizzazione di carattere culturale.
Una rivoluzione storica nell’approccio, anche in considerazione del fatto che rappresenta il primo dispositivo internazionale giuridicamente vincolante in materia. Oggi più che mai bisogna difendere con forza la Convenzione, a maggior ragione dopo la decisione della Turchia di abbandonarlo in modo unilaterale proprio in un periodo in cui Erdogan sta inasprendo violenza e repressione ai danni delle donne.
L’Unione Europea deve essere in prima linea in difesa della Convenzione, dato che si tratta del concetto stesso di cittadinanza e dei valori fondanti su cui nasce l’Europa. Purtroppo il cammino da percorrere è ancora lungo e questi 10 anni sono stati attraversati da troppi tentennamenti e occasioni mancate. La Convenzione è stata firmata da 45 Stati membri del Consiglio d’Europa (tutti tranne Russia e Azerbaijan), tuttavia solo 34 Stati hanno proceduto alla ratifica. Tra i firmatari, infatti, non hanno proceduto alla ratifica: Armenia, Bulgaria, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Moldavia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ucraina, Ungheria e Regno Unito.
Nel complesso il processo sembra quindi non decollare compiutamente. Scendendo nel dettaglio, le situazioni più complesse riguardano la già citata Turchia e la Polonia, che costituiscono gli avamposti di una deriva liberticida contro le donne. Purtroppo questa tendenza si sta diffondendo in modo preoccupante in altri Stati, soprattutto nei Paesi dell’Europa orientale. Siamo davanti un fenomeno da non sottovalutare, in quanto sono davvero troppi i Paesi dell’UE che si rifiutano ancora di sottoscriverla perché, dicono, minerebbe lo status di ‘famiglia tradizionale’ e introdurrebbe il concetto di ‘gender’.
Anche in Italia c’è chi ancora insiste su questi concetti, soffiando sul fuoco di false paure e veicolando fake news: abbiamo davanti una gigantesca questione politica, perché è in gioco lo stato di diritto.
L’ultima inchiesta a livello comunitario, elaborata dall’Agenzia Europea per i Diritti fondamentali, ha evidenziato come tra 42 mila donne intervistate, 1 su 3 abbia subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale a partire dall’età di 15 anni. Numeri drammatici, che lanciano un fortissimo allarme, ancora non ascoltato in modo adeguato. Troppo spesso molti episodi di violenza vengono derubricati unicamente a fatti di cronaca e vengono quindi affrontati con interventi spot, per soddisfare la fame giustizialista di quelle stesse forze politiche che spesso si oppongono alla Convenzione di Istanbul.
Procedimenti giudiziari rapidi e con pene adeguate sono fondamentali. Ma non bastano, perché significa misurarsi con il problema soltanto quando è divampato in tutta la sua tragicità. Bisogna invece lavorare sulla prevenzione e sulla sensibilizzazione, pianificando azioni di sistema che sappiano impattare su più livelli. Proprio l’approccio - teorico e operativo - contenuto nella Convenzione di Istanbul. Disponiamo quindi già di una piattaforma strutturata e di strumenti incisivi. La vera sfida è renderli funzionali, perché condannare la Convenzione a restare lettera morta oppure relegarla a prezioso e pregevole documento di archivio è un lusso che nessuna donna in Europa e nel Mondo può permettersi.