il femminismo ipocrita a scopo di lucro
Il pinkwashing è una tecnica sempre più diffusa tra i grandi marchi e le istituzioni per ergersi a difensori dei diritti delle donne e fare più profitto. Scopriamo meglio di cosa si tratta e quali sono le contraddizioni alla base di questa strategia di marketing.
Le lotte per l'uguaglianza, i diritti e l'emancipazione delle donne sono tutte cause nobili, quando autentiche. Quando, al contrario, orientate verso secondi fini, perdono di credibilità e recano ulteriore danno a una categoria già di per sè svantaggiata. In quest'ultimo caso, ci troviamo di fronte a un fenomeno meglio noto come pink-washing, molto diffuso soprattutto in ambito commerciale e pubblicitario. In questo articolo ti spieghiamo nel dettaglio in cosa consiste questa tecnica e perchè è importante saperne riconoscere l'ipocrisia di fondo.
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Cos'è il pinkwashing?
Il pinkwashing è una pratica con cui i brand e le aziende realizzano campagne fintamente femministe soltanto per attirare l’attenzione dei consumatori più sensibili alla questione sociale e aumentare le proprie vendite. Si tratta di una strategia di marketing nata sulla scia di un altro fenomeno simile e di cui avevamo già parlato in precedenza, ovvero il greenwashing, per cui le multinazionali puntano a far lievitare il fatturato simulando una svolta ambientalista. In entrambi i casi, a finire sotto accusa è l’ipocrisia di fondo di alcune aziende che promuovono un attivismo di facciata, senza agire concretamente per cambiare le cose e migliorare la condizione sia dell’ambiente che delle donne. Nel caso del pinkwashing, si parla di “commodity femminism”.
L'origine del termine
Il termine pinkwashing è un neologismo della lingua inglese e nasce dalla crasi tra l’aggettivo “pink”, “rosa”, e il verbo “whitewashing”, che può significare sia “imbiancare” che “nascondere”. Venne utilizzato per la prima volta nel 2002 dalla Breast Cancer Association e, più precisamente, da uno dei membri storici dell’associazione, Barbara Brenner. La donna, anch’essa colpita dal cancro al seno e portata via dalla malattia nel 2013, aveva sempre combattuto contro le aziende che, negli anni, avevano speculato su una questione seria e delicata come quella del tumore al seno soltanto per il proprio ritorno economico. A questo proposito, Brenner aveva realizzato una campagna d’impatto intitolata “Think before you pink” per eliminare dal mercato la presenza di prodotti contrassegnati dal fiocco rosa. Come riportato sul sito dedicato, la finalità di questa iniziativa era ottenere “più trasparenza e responsabilità da parte delle compagnie che partecipano a raccolte fondi per il tumore al seno” e incoraggiare i consumatori “a fare domande critiche riguardo le promozioni con il fiocchetto rosa”. A finire nel mirino dell’attivista sono state soprattutto le aziende cosmetiche che avevano mercificato la causa femminista e la ricerca contro il cancro per distogliere l’attenzione degli acquirenti dalla scarsa qualità degli ingredienti utilizzati, spesso all’origine della stessa malattia.
Pink e rainbow washing: cosa cambia?
Hai presente quei prodotti che, specialmente in occasione del Pride Month, ovvero il mese dell’orgoglio per la comunità LGBT, si dipingono con i colori dell’arcobaleno? Ecco, in tal caso si parla di rainbow washing, un’ulteriore declinazione del pinkwashing. Si tratta, ancora una volta, di una trovata commerciale con cui le aziende sfoggiano un lato gay-friendly che ha ben poca aderenza con la realtà dei fatti. La loro vicinanza alla comunità gay, lesbica, queer e trans di tutto il mondo è, infatti, apparente e, solo raramente, accompagnata da azioni tangibili a supporto dei diritti di queste persone e impegnata nella lotta alle discriminazioni e alle violenze di stampo omotransfobico. Dunque, così come con l'ambientalismo e il femminismo di facciata, anche l'attivismo LGBTQIA+ promosso dal rainbow-washing è soltanto un'operazione di marketing a scopo di lucro.
Esempi celebri
Negli anni, diversi sono i brand che si sono macchiati di questa pratica per rendere i propri prodotti più accattivanti agli occhi del cliente “politicamente impegnato”. C’è ad esempio un noto marchio di abbigliamento svedese che, in passato, ha messo in commercio delle magliette con la scritta “We Should All Be Feminists” (trad. “Tutti dovremmo essere femministi”). Niente di male, penserai. Peccato che quelle stesse magliette fossero state realizzate all’interno di laboratori tessili dislocati in Asia, in cui le dipendentilavoravano in condizioni di sfruttamento a dir poco disumano e per una paga vergognosamente misera.
Di recente, invece, è stato un altro grande marchio di fast-fashion a essere accusato, questa volta di rainbow-washing. Ebbene sì, perchè il brand in questione ha pensato bene di lanciare una collezione chiamata, per l’appunto, “Pride” proprio in prossimità del Pride Month. L’azienda in questione ha giustificato questa scelta, dichiarando che avrebbe devoluto il 20% dei profitti a Stonewall, un’associazione di beneficenza britannica che negli anni ha sempre lottato per i diritti della comunità LGBT. Tuttavia, il goffo tentativo di nascondere le mire economiche dell’iniziativa è stato smascherato dalla comunità stessa, accortasi che Stonewall non avrebbe partecipato al Gay Pride di Londra di quell’anno e che, dunque, l’associazione era stata scelta solo in virtù della propria popolarità, e che gli stessi indumenti erano stati prodotti in Turchia e Myanmar, nazioni in cui la tolleranza per le persone omosessuali, bisessuali, queer e trans rasenta lo zero.
Pinkwashing e Israele
Tuttavia, le contraddizioni che stanno alla base di questi fenomeni non riguardano soltanto le campagne pubblicitarie e le strategie di marketing, ma anche la politica. Un caso emblematico è rappresentato da Israele. Negli anni, infatti, questa nazione ha spiccato per la propria apertura nei confronti della comunità LGBTQIA+, un comportamento straordinario se consideriamo la geolocalizzazione del paese, situato nel cuore del Medioriente dove i diritti di queste persone sono spesso calpestati con la forza e repressi con la violenza. Tuttavia, nel tempo si è insinuato il sospetto che Israele abbia creato quest’immagine così inclusiva di sé soltanto per per nascondere agli occhi dell’opinione pubblica di tutto il mondo le malefatte condotte a spese della popolazione palestinese, espropriata dei propri terreni a favore dei coloni israeliani.
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Mi iscrivoCome difendersi dal femminismo di facciata
Esistono diverse soluzioni con cui il consumatore può difendersi da questa tendenza e non cadere nella trappola del pink-washing, come ad esempio:
- Fare acquisti consapevoli
- Reperire più informazioni possibili sui marchi e sulla loro produzione
- Verificare l'attendibilità di determinate dichiarazioni
Jessica Genco
Laureata presso la facoltà magistrale di Lingue e Letterature Europee ed Extraeuropee, parla fluentemente inglese e svedese, lingua per cui ha un debole così come per il paese in cui …