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Economia & lavoro/ L'intervista «Diritti ai riders battaglia epocale sulla quale si gioca il futuro di tutti»

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

REGGIO EMILIA Senza un contrappeso sociale, l’economia dei “lavoretti” rischia di farci bruciare cent’anni di lotte sindacali e diritti ormai acquisiti, diventando il nuovo parametro per il mercato del lavoro su cui si affacciano i più giovani. La pandemia ha causato infatti uno strappo nel mondo del lavoro mettendo ancor più in mora il futuro di giovani, donne e partite Iva.

Un esempio? Ha tramutato un “lavoretto” saltuario e in teoria autonomo come quello delle consegne del cibo a domicilio in un’occupazione stabile per migliaia di giovani ma senza assicurarne i diritti elementari. Anche le controparti non sono più le stesse: dagli imprenditori in carne e ossa si è passati alle multinazionali con sedi remote, scarni uffici di rappresentanza in Italia e un algoritmo come capo nonostante utili spesso milionari. In mezzo a un apparente baratro sociale c’è però la voglia di riscatto, come insegnano le lotte dal basso iniziate dagli stessi riders emiliani, frontiera della gig economy (basata sul lavoro occasionale), su cui anche i sindacati sono chiamati a colmare questa nuova divaricazione generata dal salto tecnologico. Basti ricordare le recenti vertenze a Piacenza con Amazon per i turni, o quelle sul resto della via Emilia con JustEat o Deliveroo per far assumere e assicurare i riders che fanno le consegne in bici, senza scordare i grandi vettori della logistica, pieni di lavoro ma spesso con vuoti di tutela.

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Tutti temi caldi che rappresentano un vero e nuovo traguardo anche per il maggiore sindacato d’Italia, la Cgil, la cui Camera del Lavoro di Reggio Emilia – da sempre stanza di compensazione tra diritti, vita sociale e politica – è stata affidata da poco più di un mese a Cristian Sesena. Quarantasette anni, reggiano cresciuto nella Filcams, categoria del commercio di cui è poi diventato membro della segreteria nazionale, spostando il suo baricentro a Roma, sedendo quindi dall’altra parte del tavolo nelle grandi vertenze proprio con quelle multinazionali dai grandi profitti ma dalle tutele risicate.

«Quella dei riders è una battaglia importante perché riguarda il destino non solo loro, ma del mercato del lavoro», ci racconta Sesena.

Sesena, in un’epoca basata sul distanziamento sociale, che fine ha fatto la rappresentanza sindacale?

«Con i protocolli abbiamo cercato di contenere la pandemia nella piccola come nella grande azienda e introdotto i comitati aziendali o territoriali paritetici, che hanno generato una sperimentazione. Ci sono state situazioni in cui si è dovuto litigare per avere quello che la legge stabiliva: distanziamenti, mascherine eccetera. Però oltre all’immediata gestione sanitaria è aumentato il livello partecipativo. Il datore di lavoro si siede al tavolo con il rappresentante della sicurezza dei lavoratori per discutere quale sarà la modifica organizzativa per garantire la circoscrizione di un contagio o la distribuzione per evitare assembramenti».

Vita e lavoro non sono diventati un coacervo difficile da gestire?

«Lo smartworking è stato una sorta di grandissima sperimentazione forzata di massa, senza nessun tipo di formazione per moltissimi lavoratori, senza strumenti, e che ha provocato difficoltà enormi, come la conciliazione vita-lavoro per le donne che si sono trovate a fare di tutto e di più».

Da questo modello non si torna più indietro?

«C’è stata una tempesta perfetta tra chiusura delle scuole, dei centri per disabili e i diurni per gli anziani, il lavoro da casa, con computer condivisi, con i figli in Dad, con un atavico problema di questo paese che vede la cura al 90% ancora appannaggio delle donne rendendole schiave della loro quotidianità domestica. Però al contempo c’è stata questa accelerazione verso il modello dello smartworking. Uno ha dovuto anche impratichirsi con la rete, una videoconferenza da una piattaforma che ha dovuto scaricarsi da solo senza che nessuno gli dicesse come usarla. E lo stesso dicasi parallelamente per un tema per l’applicazione di un modello di partecipazione imposto per legge. Da Amazon, nello stabilimento di Piacenza, i dipendenti hanno lungamente scioperato per avere mascherine e distanziamento di un metro e mezzo nelle linee. Alla fine, per avere l’applicazione, hanno ottenuto il comitato e anche l’azienda più antisindacale al mondo ha acconsentito a Piacenza di condividere la situazione addirittura prevedendo che in tutte le linee ci fosse sempre presente un rappresentante dei lavoratori per la sicurezza».

Ma il sindacato sta rischiando di perdere terreno?

«Ci sono state delle involontarie accelerazioni in cui i diritti restano da conquistare. Prima della pandemia lo smartworking era una rivendicazione sindacale e fatta da aziende illuminate, un giorno alla settimana, magari il venerdì per poter lavorare da casa. Con questa accelerazione, le aziende hanno avuto dati per verificare che anche su ampia scala è addirittura aumentata la produttività ed è diventato un modello di organizzazione del lavoro. Quindi da esperienza di nicchia è diventato un modello esportabile in cui il sindacato è chiamato a fare una rivendicazione non più di un pezzo ma di un intero modello, con tutto quello che comporta a caduta. Non credo che la fase della pandemia sia stata positiva per le organizzazioni dei diritti, basta vedere dalle situazioni economiche e dagli ammortizzatori sociali inventati per coprire i tanti buchi. Sicuramente si presta ad aprire una fase nuova. C’è stato uno strappo violento su cui è necessario intervenire con la contrattazione per inserire i nuovi diritti».

Il sindacato è diventato a sua volta più moderno?

«Abbiamo avuto un ruolo importante a livello centrale con tutti gli ultimi governi. Poi sui rapporti con i lavoratori abbiamo avuto ovviamente delle difficoltà, perché siamo un sindacato molto di prossimità, di contatto. Quindi l’impossibilità fisica di andare nei posti di lavoro, la necessità di dover limitare anche l’accesso alle nostre sedi per problemi di sicurezza, ci ha spiazzati. Anche noi ci siamo adattati molto rapidamente. Uno degli interrogativi che ci siamo posti subito è come garantire le informazioni sindacali ai lavoratori remotizzati nelle loro abitazioni. E abbiamo fatto intese, nel settore metalmeccanico ma non solo, per fare sì che i diritti sindacali potessero diventare anche diritti online. Diritti fruibili quindi anche a distanza: l’assemblea, la bacheca online, in modo tale da non rischiare che i lavoratori diventassero removibili oltre che remoti. Quindi anche noi abbiamo avuto uno shock pandemico. Tutta la consultazione sul contratto nazionale dei metalmeccanici è stato fatto in presenza quando eravamo in zona rossa, facendo assemblee sui piazzali, all’aperto, in scaglioni. Anche noi abbiamo dovuto adattarci».

Questa nuova fase non è uno sbocco anche per voi?

«Ci sono nuovi diritti anche perché ci sono nuove categorie. Quella dei riders è la più evidente e dalla cena portata a casa non si tornerà indietro. La figura del rider rischia di entrare in una sorta di mitologia, con tutti i suoi limiti, ma è una figura che racconta tantissime cose. Intanto che il lavoro inteso come gig economy, estremamente tecnologizzato, in teoria è un lavoro profondamente novecentesco. Nel senso che la transizione tecnologica di cui tutti parlano sul breve crea povertà e lavoro sottotutelato. Nel medio-lungo tragitto, se riesci a governarlo con il confronto sindacale può diventare un’opportunità per creare nuova e buona occupazione. Ora siamo solo alla creazione di lavoro povero. Il rider non è un lavoratore subordinato e quindi viene irretito dell’idea di essere un lavoratore autonomo che ha a disposizione il suo tempo. E non ha un padrone ma un algoritmo. Però quando questo lavoro in una situazione di crisi diventa “il” lavoro, non il lavoretto, tu sei obbligato a raccogliere consegne senza sosta e quindi diventa di fatto un lavoro subordinato. Subisci anche delle sanzioni tramite sistemi di ranking reputazionale sempre calcolato dall’algoritmo. Un sistema di padronato molto rigido ammantato di modernità».

E le vostre controparti sono dei colossi.

«Deliveroo, quello che era Foodora, ha 15 dipendenti diretti e una sede a Milano e non sai nemmeno più con chi prendertela. Ma i riders rappresentano anche uno snodo: sono diventati attività essenziali, in prima linea, cresciute esponenzialmente con la pandemia, non hanno avuto a disposizione il plusvalore creato con il loro lavoro e si sono trovati a chiedere delle condizioni più dignitose. Questo credo interroghi molto il mercato del lavoro, la politica e il sindacato. Facciamo fatica anche noi a intercettarlo. Si muove in individualità con un’app sul cellulare. Ma ci sono casi, come quello con JustEat, in cui i lavoratori sono stati poi assunti a tempo indeterminato, part-time e con tutti i diritti». —

 

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