Settant’anni di leggi per riconoscere i diritti delle donne. Ma la strada è ancora lunga
Sono trascorsi settant’anni esatti. L’Assemblea costituente ha approvato il terzo articolo della Costituzione Italiana nel marzo del 1947. Poche righe che avrebbero cambiato per sempre la cultura del nostro Paese. «I cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di condizioni sociali, di religione e di opinione politiche, hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge….». Un passaggio fondamentale per le donne italiane. «Grazie a quell’articolo, l’uguaglianza dei generi entrava buon diritto tra i principi fondanti della neonata Repubblica». Un interessante approfondimento del Senato racconta il lungo percorso dell’emancipazione femminile in Italia. Almeno dal punto di vista legislativo. Una strada tortuosa - ancora lontana dalla piena realizzazione di quei principi - ma che da quel giorno del 1947 non si è più fermata.
Molti obiettivi restano ancora da conquistare, in particolare in tema di parità lavorativa. E non è un caso se oggi i dati Istat riconoscono almeno venti punti percentuali di differenza tra il tasso di occupazione maschile e quello femminile. I numeri «testimoniano che siamo ancora ben lontani da una piena uguaglianza di opportunità». Eppure in questi anni il legislatore ha compiuto diversi passi avanti. La prima legge dedicata alle madri lavoratrici risale al 1950. Una norma che prevedeva, per la prima volta, il divieto di licenziamento nei primi mesi dopo la nascita del figlio e l’obbligo di risparmiare alle donne incinte lavori pericolosi e particolarmente faticosi. Gli interventi legislativi attraversano la storia del Paese e scandiscono la conquista di nuovi diritti. Basta pensare che fino all’approvazione della legge n.1441 del 1956, le donne italiane non potevano accedere alla magistratura. E si sono dovuti attendere altri sette anni per il vedere riconosciuto il pieno diritto ad accedere «a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie senza limitazioni di mansioni e di svolgimento della carriera». Dalla toga alla divisa. Per vedere le donne in Polizia l’Italia ha atteso un intervento legislativo del 1959. Ma solo nel 1981 è stato consentito l’ingresso delle donne nei ruoli dell’amministrazione della pubblica sicurezza «con parità di attribuzioni, di funzioni, di trattamento economico e di progressione di carriera». Ed è solo con la legge 380 del 1999 che è stato permesso anche alle donne di svolgere il servizio militare.
Risalgono alla fine degli anni Settanta, invece, i primi interventi legislativi per garantire la parità di trattamento e limitare le discriminazioni. È stata la legge n.903 del 1977 - nata grazie all’impegno del ministro del Lavoro Tina Anselmi - a sancire «il divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro, nella formazione professionale, nelle retribuzioni e nell’attribuzione di qualifiche professionali». Nel lungo percorso verso l’uguaglianza lavorativa tra uomini e donne, una tappa fondamentale è la legge 188 del 2007: il primo provvedimento contro la drammatica pratica delle dimissioni in bianco. Tra gli obiettivi ancora da raggiungere, resta la parità in politica. Se da oltre settant’anni è stato riconosciuto il diritto di voto femminile, nelle nostre istituzioni rappresentative le donne restano ancora una minoranza. In questo caso, nonostante i ritardi, negli ultimi anni la situazione sta nettamente migliorando. La prima norma risale al 1993. È la legge che introducendo l’elezione diretta dei sindaci e dei consigli comunali «prevedeva una riserva di quote per l’uno e per l’altro sesso nelle liste di candidati alle amministrative». L’accelerazione, però, è arrivata negli anni Duemila. Quando diversi interventi del legislatore - ad esempio in tema di elezioni europee e regionali - si sono dedicati a garantire una maggiore presenza femminile a tutti i livelli.
Discorso a parte per tutti quegli interventi legislativi che hanno interessato il ruolo femminile nella famiglia e nella società. Interventi che hanno accompagnato l’evoluzione del nostro Paese e che, ricorda il dossier del Senato, «sono stati il frutto delle battaglie che negli anni Settanta e Ottanta hanno visto l’impegno di migliaia di donne riunite in collettivi, movimenti, associazioni». Impossibile non ricordare la legge n.75 del 1958, la nota legge Merlin (dal nome della senatrice socialista Lina). La norma che ha stabilito la chiusura delle case chiuse e che ancora oggi lascia divisa l’opinione pubblica italiana. E poi c’è il tema della procreazione. Fino al 1971 in Italia era in vigore un articolo del Codice penale che vietava la propaganda e l’uso di qualsiasi mezzo contraccettivo. Solo la legge 405 del 1975, dopo aver istituito i consultori familiari, «attribuiva a queste nuove strutture l’assistenza in materia di procreazione responsabile». Risale al 1978, invece, la norma parlamentare sull’interruzione volontaria di gravidanza, poi sottoposta a referendum.
La società cambia, le leggi accompagnano le trasformazioni. Spesso con evidente ritardo. Lascia stupiti pensare che si è atteso fino al 1981 per avere una norma che abolisse l’istituto del matrimonio riparatore e il cosiddetto delitto d’onore. «Che prevedeva una sensibile riduzione della pena - si legge - per chi uccideva coniuge, figlia o sorella in uno stato d’ira, al fine di difendere l’onore suo o della famiglia, leso a causa di una illegittima relazione carnale della donna». È un lungo percorso, che arriva fino agli interventi legislativi contro la violenza sulle donne - rispettivamente del 2001 e del 2009 - dedicati ai maltrattamenti domestici e allo stalking. Senza dimenticare il decreto legge 93 del 2013 sul femminicidio. Il bilancio è positivo? In settant’anni di vita repubblicana, la condizione delle donne italiane è migliorata, questo è indubbio. Eppure, come riconosce l’approfondimento del Senato, il nostro Paese è ancora lontano dal raggiungere la piena parità dei sessi. «Le battaglie delle donne non sono ancora finite».