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«Ho abortito». L’autodenuncia con cui 50 anni fa le donne tedesche vinsero la battaglia per l’aborto legale- Corriere.it

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

«Questa azione ha rotto le dighe», così il nome e volto storico del femminismo tedesco,Alice Schwarzer ha ricordato l’autodenuncia che 50 anni fa aprì in Germania federale le battaglie per l’aborto legale. Schwarzer, assieme a 373 donne, tra cuiSenta Berger e Romy Schneider, dichiarò, sulla copertina del settimanale Stern, che ha dedicato tutto il numero alla ricorrenza, di aver abortito.Era un reato. E cadeva tutto sulle donne: non esisteva alcuna responsabilità alla paternità fuori dal matrimonio (e non è esistita a lungo). A ricordare quella storica ribellione e quel grido, «Wir haben abgetrieben!», sono ora tutti i media tedeschi, a cominciare dalla radio e tv pubblica Ndr, Norddeutscher Rundfunk. In realtà, le tedesche seguivano l’esempio delle francesi che, il 5 aprile del 1971, avevano pubblicato, su Le Nouvel Observateur, il Manifeste des 343, in cui donne, anche molto famose, dichiaravano di aver abortito.

All’epoca lo facevano clandestinamente circa 300 mila francesi ogni anno e 300 di loro morivano sotto i ferri delle mammane. Tra 1972 e 1973, 350 mila di loro abortirono in Gran Bretagna o in Olanda, dov’era legale. Soltanto il 7% delle donne aveva allora accesso, in Francia, alla contraccezione. Gli uomini, al solito, non se ne curavano: le conseguenze, fisiche e legali, non li riguardavano. L’autodenuncia divenne un movimento. Finché fu portata, tre anni dopo, il 26 novembre 1974, davanti all’Assemblea: salì sulla tribuna la neo-eletta ministra della Salute, la magistrata ed ex-deportata ad Auschwitz, Simone Veil. Simone non era affatto una donna di sinistra: era una liberale convertita al cattolicesimo. Fu oggetto di attacchi ferocissimi. Ma tenne la barra. Soltanto quel primo dibattito durò 25 ore, in un’Assemblea in cui le donne rappresentavano solo il 2,4% degli eletti (val la pena ricordarlo a chi ogni tanto sostiene che stiamo andando indietro rispetto agli anni Settanta).

Tenne la barra e ribadì che bisognava puntare sulla contraccezione, che l’aborto legale era l’ultima risorsa per le donne, che lo Stato non poteva voltare la testa dall’altra parte davanti a una palese ingiustizia e non equità, proprio come facevano gran parte degli uomini. Affermò che i poteri pubblici dovevano assumersi le loro responsabilità e impedire i macelli dell’aborto clandestino. E scese dal palco, con la legge approvata. La sinistra la sostenne, benché gli stessi comunisti fossero fautori di una natalità rinforzata. E qui veniamo al punto.Dei bambini, in sé, non è mai importato molto a nessuno. Altrimenti si sarebbero attuate (come poi in Francia si è fatto) delle reali politiche di sostegno all’infanzia, contro le malattie, per una sana alimentazione e una buona istruzione. Quello che era in gioco, in Francia, come in Germania e, ovviamente in Italia, era il potere degli uomini (e dello Stato, che allora era dominato da amministratori maschi) sui corpi delle donne.

L’Italia, perfino quella repubblicana, aveva ereditato dal diritto romano anche la figura del «curatore al ventre», dove «ventre» stava per donna: ovvero, in assenza o in morte di un marito che esercitava un potere assoluto sul corpo della moglie e sui figli, poteva intervenire un terzo individuo, un «curatore», che assumeva il controllo dei nascituri quando ancora erano nella madre. Fu abolito soltanto con la riforma del diritto di famiglia, nel 1975. Qual era la partita? La legge rendeva, nel privato, il padre padrone dei figli: quelli nati fuori dal matrimonio poteva semplicemente ignorarli o requisirli se potevano servigli a fini patrimoniali, di alleanze o ereditari. Nel pubblico, faceva della maternità non un diritto, ma un dovere: lo Stato aveva bisogno di figli, per andare in guerra, per lavorare nei campi o nelle fabbriche, per produrre altri figli (oggi, per «produrre» pensioni).

In quegli anni alle donne, a una buona percentuale di loro, che alla fine divenne una solida maggioranza, apparve chiaro che il corpo apparteneva loro. Che la maternità era una scelta. E che i figli non erano proprietà del padre o dello Stato. Anche in Italia le donne si autodenunciarono, con in testaEmma Bonino. Era il 1975: in quello stesso anno la Corte Costituzionale depenalizzò l’aborto terapeutico stabilendo, per la prima volta, che la vita della madre contava (sembra assurdo, ma fino a quel momento, in caso di problemi, si era quasi sempre preferito salvare il bambino). Tre anni dopo arrivò la legge 194. L’aborto diventava legale anche in Italia. Ma l’introduzione dell’obiezione di coscienza lo rendeva di fatto impossibile in un numero che è diventato via via più grande di strutture sanitarie.

Racconta Alice Schwarzer nell’articolo di Stern che quando tornò in Germania, da Parigi, in quel 1971, trovò solo un paio di gruppuscoli femministi all’Università. Il ’68 sembrava non aver lasciato traccia: le ragazze si tormentavano per la lotta di classee ignoravano quella per i loro diritti. Ma non ci volle molto perché, come dice Schwarzer, mettessero al centro delle loro battaglie ciò che davvero riguardava la loro vita.Il rischio di quella autodenuncia fu altissimo: non solo il carcere, ma l’ostracismo sociale, l’abbandono da parte dei partner. Però, «l’articolo di Stern fu la scintilla, le polveri incendiarie erano già lì». La Germania federale in effetti, come l’Italia, era allora in ritardo rispetto agli Stati Uniti e ai Paesi Bassi nell’emancipazione femminile. «Ma quell’azione ha rotto le dighe. Le donne hanno ottenuto una voce. Fino a quel momento erano state mute. Adesso sapevano: Me too. Sì, anch’io. No, non sono sola. Siamo tante».

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