Afghanistan, dopo vent'anni l'Italia pone fine alla missione
L’Italia ha ufficializzato il ritiro delle truppe dall’Afghanistan seguendo l’esempio degli Stati Uniti. Ai microfoni di Radio Popolare, nella puntata di Prisma del 9 giugno 2021, Lorenza Ghidini e Roberto Maggioni hanno intervistato Giuliano Battiston, direttore dell’associazione di giornalisti indipendenti “Lettera22“.
È tempo di bilanci per questo lunghissimo conflitto. A cosa è servita questa lunga guerra durata vent’anni?
È servita a dimostrare che la guerra non è lo strumento giusto e che a dispetto delle dichiarazioni che ci hanno accompagnato in questi venti lunghi anni e che ci hanno rassicurato che la guerra avrebbe prodotto democrazia, stabilità e sicurezza l’esito è stato fallimentare per tutti, in particolare per gli afghani. Per questo, le parole del Ministro della Difesa Guerini, che ieri ha ammainato la bandiera, sono suonate ancora una volta piuttosto retoriche. La missione è stata fallimentare e lo sottolinea il fatto che gli afghani sappiano bene che anche dopo il ritiro delle truppe straniere la guerra continuerà. Il conflitto tra le forze governative e i talebani, infatti, è più aspro di prima.
I francesi, nel ritirarsi, si sono fatti carico di tutti gli afghani che hanno lavorato con loro e che adesso in Afghanistan sono considerati dei traditori. Sono stati forniti passaporti e permessi per permettere loro di raggiungere la Francia ed essere tutelati da eventuali rappresaglie. Quanto è rilevante questa pratica in questo momento?
È molto rilevante. Tutti i governi coinvolti nel conflitto stanno accelerando le pratiche per concedere il riconoscimento del visto ad interpreti, traduttori e tutti coloro che hanno lavorato con le truppe straniere e che i talebani considerano dei traditori. La gestione degli interpreti ha assunto una rilevanza centrale per i media internazionali. È essenziale tutelarli ed è importante che anche l’Italia conceda loro il visto perché i talebani non dimenticano e hanno liste di tutti coloro che hanno lavorato per il nemico. È ancora più importante che l’Italia e i Paesi che hanno condotto la guerra in Afghanistan in questi anni si impegnino per assicurare la continuità di assistenza in ambito civile a tutti gli afghani, anche una volta ritirate le truppe. Questo discorso vale anche per gli Stati Uniti che in questi ultimi mesi, dopo l’annuncio del ritiro incondizionato, cioè indipendente da ciò che succede sul terreno o in campo diplomatico, hanno comunicato agli afghani che continueranno a dargli assistenza. Bisogna però vedere in che forma, sotto quali termini e per quanto tempo durerà questo sostegno. L’Afghanistan è un paese che si regge sulle donazioni internazionali. Gli stipendi delle forze armate vengono pagati in particolare dagli stati uniti e per questo c’è bisogno di una continuità finanziaria che soltanto una collaborazione con la comunità internazionale può assicurare.
Permane un livello di violenza molto alto all’interno del Paese?
Si, in questi primi giorni qui a Kabul, ho incontrato tanti amici e interlocutori che sono molto preoccupati dal ritiro delle forze straniere.Il paese ne ha viste tante, questa è una fase estremamente delicata, è un periodo di transizione verso un futuro incerto. È un periodo in cui gli attentati spesso non hanno rivendicazione. C’è grande incertezza e inquietudine perché non si sa chi siano i nemici.Sono stato in un quartiere della parte occidentale di Kabul dove un mese fa c’è stato un attentato contro una scuola del quartiere in cui sono morte almeno ottanta studentesse e non si sa se siano stati i talebani o una branca locale dello stato islamico.C’è addirittura chi afferma che potrebbe esserci stato un coinvolgimento delle autorità.Questa incertezza su chi siano i nemici e chi voglia contrastare il processo di risoluzione diplomatica del conflitto causa molta inquietudine.
Durante tutto il conflitto si è parlato molto della questione dei diritti delle donne in Afghanistan. Vent’anni dopo com’è cambiata la situazione?
Credo che i progressi fatti siano stati raggiunti a dispetto della presenza delle truppe straniere. In queste settimane ho sentito ripetere spesso che con il ritiro delle truppe verranno meno i diritti che i cittadini hanno acquisito in questi anni, questi diritti però, non sono stati imposti dai soldati stranieri ma sono stati conquistati dalla società. La società Afghana è demograficamente giovane e c’è una parte di cittadini, in particolare nelle città principali, che ha ambizioni simili alle nostre.Vogliono poter studiare e partecipare alla costruzione del futuro del paese. Nei giorni scorsi, ad esempio, ho intervistato alcune delle studentesse sopravvissute all’attentato di cui parlavo prima che nonostante siano preoccupate per la loro sicurezza sono molto determinate a tornare a scuola.Purtroppo però, questa voglia di partecipazione, viene spesso ostacolata da forze oscure e ignote agli Afghani.
C’è quindi una forte preoccupazione per il vuoto che rischia di crearsi con il ritiro delle truppe straniere dall’Afghanistan, incluse quelle dell’Italia?
Sì, si tratta di una transizione da una situazione piuttosto definita in cui gli Stati Uniti, le altre forze straniere e il governo afghano si opponevano ai talebani ad una situazione in cui le forze straniere che sostenevano il governo verranno a mancare. I talebani sanno di essere i più forti al tavolo diplomatico, sanno di poter esercitare la leva militare per ottenere ulteriori concessioni e sanno che il governo afghano è molto indebolito. Stanno conquistando distretti di molte provincie, utilizzando come al solito la violenza e l’esercizio delle armi per ottenere concessioni politiche ed essere più forti nel caso in cui dovesse ricominciare il processo diplomatico. In questi giorni a Kabul è arrivato un inviato speciale degli Stati uniti che sta parlando con vari interlocutori afghani ma per ora il processo di pace sembra in stallo.Gli americani vorrebbero, prima del ritiro completo, mostrare all’opinione pubblica un accordo di pace concreto ma sarà molto difficile.