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Afghanistan: uomini che rispettano le donne

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

Kabul − In Afghanistan non sono tutti cattivi, non sono tutti contro le donne e non sono tutti pronti a lasciar perdere qualora i talebani tornassero all’attacco per cancellare i diritti delle donne. A poche settimane dal completo ritiro degli americani e delle truppe straniere, nel pieno della pandemia, le donne sono preoccupate ma anche se non si incontrano spesso, ci sono uomini che hanno lavorato con loro perché le condizioni di vita migliorassero.

Uno di loro si chiama Salim Khan, ha 45 anni e gestisce un’organizzazione, la Oxus, che si occupa di microcredito. Operano in 10 province, compresa la capitale, e quello che fanno è selezionare “i più poveri tra i poveri” che hanno un progetto e aiutarli a svilupparlo con un prestito. «Non sono grandi prestiti, ma fanno la differenza, possono essere 100 dollari, o 10.000, ma sono sufficienti a cambiare la vita delle persone».

Persone che per la maggior parte sono donne, 55% contro il 45 degli uomini, uno dei pochi casi dove la statistica è a vantaggio delle donne in questo paese. In città si aprono ristoranti, saloni di bellezza, si cuciono vestiti e si intrecciano tappeti. Nelle zone rurali, invece, si finanzia l’agricoltura, l’allevamento, l’artigianato, ora stanno persino pensando ai pannelli solari in un paese dove l’elettricità non raggiunge neanche tutta la capitale.

«Un progetto di cui siamo veramente orgogliosi è uno degli ultimi. Quando è scoppiato il covid, le mascherine, che vengono dalla Cina, per molti afghani avevano un prezzo irraggiungibile. Ci siamo consultati con le colleghe − nell’organizzazione il 40% delle impiegate sono donne − e abbiamo pensato di reclutare 1.000 persone tra le più povere, avremmo fornito il materiale per fare delle maschere lavabili, avremmo insegnato come cucirle e avremmo dato loro 5 afghani per mascherina. Ne abbiamo prodotte 1 milione e ottocentomila, date poi gratis a chi ne aveva bisogno. Ma la cosa più straordinaria è che partecipavano intere famiglie: la mamma cuciva, il papà tagliava e i figli sistemavano le confezioni. Sono piccole cose, ma che cambiano quello che ci circonda».

Per Salim è tutta una questione di responsabilizzare le persone: quando qualcuno ha un obiettivo in genere lo porta avanti, e anche in questo caso le donne ne escono vincitrici, se il 95% di chi chiede un prestito arriva a restituirlo, con le donne si sale al 99%. «Questo è un paese difficile, ma credo non solo che le donne possano fare tutto, ma che lo facciano anche meglio. In questo paese sono arrivate tonnellate di soldi, ma tra corruzione e potere alla gente bisognosa non è arrivato molto. L’idea è quella che costruiscano il proprio futuro per essere indipendenti, per poter aver fiducia in sé, per poter studiare».

Non sa in che forma, ma teme che i talebani arriveranno. E se le donne non potessero più lavorare? «Non credo si arriverà a tanto, ci sono donne che mantengono intere famiglie e le donne di oggi non sono quelle di 25 anni fa. Ma anche se non fosse più possibile sostenerle direttamente, troveremo il modo di farlo indirettamente, attraverso i padri e i mariti». L’organizzazione nasce da una costola di un’ong francese che dal 2007 ha finanziato migliaia di progetti per un valore di 65 milioni di dollari.

Ora Salim ha in progetto una banca dei vestiti, vorrebbe raccogliere quelli usati, sistemarli, pulirli e destinarli a chi ne ha bisogno. Intanto non resta che andare a vedere uno di questi progetti finanziati.

Il ristorante di Homaira Sharafpoor prepara del cibo buonissimo. Per esserne sicuri, ce lo ha anche fatto provare. Quarantacinque anni anni, durante il regime dei talebani aveva ripiegato in Iran con la sua famiglia, poi sono tornati e lei ha chiesto un prestito per aprire un ristorante.

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«Volevo aiutare la mia famiglia e altre donne, così ho aperto un posto piccolino con due o tre tavoli, dopo 8 anni, qui ogni giorno passano decine di persone». Ha 20 dipendenti, la maggior parte vedove che ora mantengono le loro famiglie invece di finire magari per la strada a elemosinare. «All’inizio non è stato facile, alle donne nessuno affitta nulla, che sia un appartamento o un locale, poi quando ci sono riuscita, fuori avevamo gente che ci prendeva in giro, le mie ragazze venivano molestate dalla polizia. Così un giorno ho preso, sono andata dal comandante e gli ho detto che non doveva accadere più». Madre di due figli, «per fortuna due maschi», dice amorevolmente, perché i figli maschi sono i preferiti in quasi ogni famiglia afghana. «Non importa quanto bene o quanto guadagno, mio fratello sarà sempre uno scalino sopra di me», conferma Mona, una ragazza sui trent’anni che sprigiona vitalità da ogni poro.

Tutti parlano dei talebani, della sicurezza e dell’incertezza di quello che sta o non sta per accadere, ma di fronte al cibo tutto si ferma, si chiacchiera e si torna a sorridere per un momento. «Da noi offrire cibo è segno di ospitalità, quando vai da qualcuno se cucinano per te, vuol dire che ti vogliono bene. Anche nelle case più povere si trova sempre qualcosa da mangiare, piuttosto se lo tolgono a loro».

Homaira dice che la sua famiglia è felice di quello che ha costruito e lei è felice che la sua famiglia la sostenga e lavori con lei. «Spero che il governo non permetta ai talebani di tornare, non vogliamo chiudere, non vogliamo stare a casa, non voglio che queste persone perdano tutto». Ha 45 anni, sa appena leggere e scrivere, non ha mai letto un libro in vita sua, ma è riuscita non solo a sostenere tutta la sua famiglia ma ad aiutare gli altri. Di donne così è pieno l’Afghanistan, basta solo abbattere qualche muro, sollevare qualche velo e seguire il profumo del buon cibo.

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