Quando nascere femmina significa vivere in uno stato di subordinazione e senza possibilità di riscatto
Le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive dappertutto, recitava un aforisma della star del musical Mae West diventato titolo-manifesto del libro della psicologa tedesca Ute Ehrahardt e slogan delle fanciulle ribelli. Non tutte, purtroppo, non sempre. Ci sono giovani donne che pagano duramente la disubbidienza. Succede in culture patriarcali in cui nascere femmina significa vivere in uno stato di subordinazione a padri, fratelli, mariti, senza diritti e senza possibilità di riscatto (il 60 per cento di tutti gli analfabeti nel mondo è costituito da bambine e da ragazze, basti dire questo). Succede anche da noi. Dove retaggi culturali arcaici, fondamentalismi, mancata integrazione creano cortocircuiti pericolosi, di cui si parla solo quando finiscono in tragedia.
Tutti oggi conoscono la storia di Saman Abbas, la 18enne pakistana, cresciuta in provincia di Reggio Emilia e sparita all’improvviso il 30 aprile scorso dopo aver chiesto alla famiglia i documenti per andarsene di casa e vivere come voleva lei, all’occidentale. Le indagini dicono che sarebbe stata uccisa dallo zio, forse strangolata e poi seppellita. Il padre sapeva, la madre sapeva, i cugini sapevano. Ora sono scappati tutti. Mandanti schiavi - loro sì, più di chi avrebbero voluto mettere in catene - di diktat medievali che antepongono un’interpretazione fanatica dell’Islam all’amore filiale e alla pietà. La colpa di Saman è stata quella di non essere “abbastanza musulmana”, così ha spiegato il fratello 16enne Ali Haider ai carabinieri venuti con i cani a ritrovare il corpo della ragazza tra i campi di cocomeri e meloni dell’azienda agricola di Novellara. Ci hanno provato in tutti i modi a domarla, murandola viva in casa, togliendole qualsiasi contatto con l’esterno, cercando di costringerla a ritornare in Pakistan per sposare un cugino che neanche conosceva. Ma lei non voleva essere domata. E chi fa come lei, ha ricordato Ali, viene punito con l'uccisione. Così hanno sempre detto in casa. Così dice il Corano. Anche se lui non l’ha mai letto, ma si fida. O si fidava. Prima che tutto questo accadesse, e il padre era il Verbo, e la paura l’unica ragione per credere e conformarsi a tradizioni di un mondo in cui non ha mai vissuto. Integrazione è questo, chiudere la distanza tra culture. Non rinnegare la propria storia ma neppure imporla con la forza a chi ne ha costruita nel frattempo una sua. In questo dovremmo essere d’aiuto. Non stare solo a guardare scambiando per rispetto quel senso di totale estraneità che sempre ci prende quando si parla di “stranieri”. Sono italiani quanto noi se abitano qui, crescono qui, lavorano qui e mettono radici: le loro storie ci riguardano.
Punizione, castigo, colpa sono tutte parole che hanno segnato e segnano ancora oggi la vita delle donne. Andatevi a rivedere Sedotta e abbandonata, un film di Pietro Germi del ’64, girato nella Sicilia profonda dei delitti d’onore e delle donne in nero stile burqa, dove a passare per “poco di buono” ci voleva niente e tanto bastava per essere linciate dalla gente. In 50 anni la storia è cambiata ma ancora rimane sotto traccia l’idea che a essere troppo libere e “sfrontate” qualcosa si rischia, ed è normale. Però chi ne approfitta, almeno oggi non è (sempre) graziato. Ed è già un passo avanti. Ci sono ancora Stati in cui una ragazza rischia la prigione o la pena di morte solo perché ha “violato il codice di abbigliamento tradizionale”, guidato un’auto, tradito il marito.
Come si cambia tutto questo? Da dove si comincia? Non abbassando lo sguardo a terra. Non tirandosi fuori. Ogni battaglia, anche solo di alcuni, è una battaglia per i diritti di tutti. In tutto il mondo nel mese di giugno si celebrano le manifestazione dell’orgoglio LGBT. La data ufficiale è il 28 giugno, in ricordo dei moti di Stonewall, la prima protesta esplosa a New York in seguito all’irruzione della polizia, la notte del 27, in un bar gay del Greenwich Village. Correva l’anno 1969. Da allora tanta strada è stata fatta. E anche se molta ne resta da fare (ancora oggi in 69 Paesi essere gay è considerato reato), l’arcobaleno è una bandiera universale, che ha smantellato stigmi e vergogna. “Vivevo in una comunità ultraortodossa, per mia mamma ero un abominio” ha scritto nella sua autobiografia il medico e accademico Oliver Sacks, svelando in tarda età, un’omosessualità a lungo taciuta, gestita con disagio. Fino al coming out poco prima di morire. Oggi i ragazzi e le ragazze che si amano si baciano per strada, si tengono per mano, esplorano e scavalcano barriere e identità. È il segno che le cose si possono cambiare. Basta provarci, e provarci in tanti. È questo che lega un vecchio neurologo che non poteva esprimere la sua sessualità a una ragazza pakistana che da sola si è opposta non solo alla famiglia ma a un intero sistema di valori, per sbarazzarsi dalle catene e vivere la sua vita. Sono due storie di libertà. Negata, cercata, pagata con la vita. Vietato girarsi dall’altra parte.
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