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Stritolare il partito filocurdo HDP, la missione di Erdogan

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

La Corte costituzionale turca ha accolto l’atto d’accusa col quale i pubblici ministeri della Corte suprema di giustizia, il 7 giugno scorso, chiedevano la messa al bando del Partito democratico dei popoli (HDP), di sinistra libertaria e filocurdo, per presunti legami con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), aprendo così la strada a un processo che potrebbe chiudere definitivamente il terzo più grande partito del paese.

La Corte ha tuttavia, per il momento, respinto un’ulteriore richiesta di congelamento dei conti correnti bancari sui quali il partito filocurdo riceve il finanziamento dal Tesoro dello Stato.

I giudici dell’Alta Corte a marzo avevano respinto una prima causa intentata contro l’HDP denunciando errori procedurali, ma ora dovranno decidere con la maggioranza dei due terzi la chiusura o meno del partito e l’interdizione per cinque anni dall’attività politica di 451 suoi membri, compresi tutti gli attuali deputati eletti in parlamento.

Se l’HDP dovesse essere chiuso, sarebbe l’ottavo partito filocurdo ad essere messo al bando per il suo presunto coinvolgimento in attività “terroristiche” e si aprirebbe una fase di ricorsi e dunque un processo che concorrerebbe inevitabilmente a infiammare ancor di più il quadro politico del paese.

Il secondo partito di opposizione che ha 55 seggi in Parlamento nega qualsiasi legame con il PKK, organizzazione armata che dal 1984 è in guerra contro lo stato per l’autonomia del sudest anatolico a maggioranza curdo.

“Non c’è differenza tra HDP e PKK”, è scritto nella richiesta di scioglimento del Procuratore capo della Corte suprema, Bekir Şahin, dopo che il leader dell’estrema destra, Devlet Bahçeli, prezioso alleato del presidente Erdoğan, nel dicembre scorso, aveva lanciato un messaggio chiaro alla magistratura per meglio orientarla nella decisione:

“L’HDP è un’organizzazione criminale con una veste politica; la sua chiusura è un dovere d’onore per la storia, per la nazione, per la giustizia e per le generazioni future e non dovrà essere più possibile una sua riapertura sotto un altro nome”, aveva detto Bahçeli.

Sembra questa la versione moderna del sogno antico del nazionalismo turco dei primordi della Repubblica di una “Turchia senza curdi”.

Molte delle figure di spicco dell’HDP, tra cui il leader carismatico e fondatore Selahattin Demirtaş, sono attualmente in carcere con l’accusa di terrorismo.

Ömer Faruk Gergerlioğlu, fervente attivista per i diritti umani, è l’ultimo della lunga serie di parlamentari del partito filocurdo finiti dietro le sbarre. Nell’aprile scorso è stato condannato a due anni e mezzo di reclusione per aver condiviso un articolo sui social media che riportava una citazione di un comandante del PKK che chiedeva la ripresa del processo di pace interrotto nel 2015.

Da quando è stato fondato, nell’ottobre del 2012, l’HDP ha rappresentato per l’AKP un elevato fattore di rischio per il raggiungimento della maggioranza assoluta in Parlamento nelle elezioni che si sono susseguite da allora. Per questo il partito filocurdo ha visto decimare la sua classe dirigente con un giro di vite davvero impressionante: sono stati defenestrati oltre cento sindaci, molti dei quali finiti dietro le sbarre assieme a circa ventimila tra dirigenti e militanti e a 14 parlamentari.

Giovedì, 17 giugno, un uomo armato ha fatto irruzione negli uffici dell’HDP nella città occidentale di Izmir, uccidendo una giovane militante del partito, Deniz Poyraz, che quel giorno sostituiva la madre nel servizio di cucina e pulizia nella sede.

“Erdoğan è un giudice ombra nella causa aperta contro i politici curdi”, ha fatto sapere tramite i suoi avvocati Selahattin Demirtaş dalla sua cella del carcere di massima sicurezza di Edirne, dove è rinchiuso da quasi cinque anni.

Ci troviamo di fronte a una vera e propria persecuzione politica dal momento che l’HDP è un partito di sinistra ambientalista, con particolare attenzione ai diritti umani, sociali e politici, delle minoranze etniche e religiose, dei diritti delle donne e di quelli LGBTI.

Era nato con l’intento di estendere la propria influenza oltre i confini ristretti del sudest anatolico a maggioranza curda. Dunque un partito non più regionale, ma capace di raccogliere il consenso di tutto il paese, di unire quella sinistra turca delusa dai partiti tradizionali.

Il suo leader curdo e fondatore, Selahattin Demirtaş, si era impegnato in una operazione di importanza rivoluzionaria e inimmaginabile in Turchia fino a qualche anno prima: traghettare la galassia del movimento curdo e quella per i diritti umani sul terreno della lotta politica civile e pacifica.

Ma ora il leader curdo sta pagando duramente questa svolta ed è dietro le sbarre dal 4 novembre 2016, in una cella di tipo F, nonostante la sentenza perentoria della CEDU che ne aveva chiesto l’immediata liberazione ritenendo che la sua incarcerazione fosse stata decisa per mero calcolo politico.

Sul leader curdo ora pendono le accuse di “propaganda e appartenenza a un’organizzazione terroristica”, secondo la famigerata legge antiterrorismo del codice penale turco (TCK) perché “avrebbe elogiato il PKK e il suo fondatore Abdullah Öcalan” per 93 volte durante i suoi comizi.

Dalla nascita della Repubblica turca (1923) ad oggi, 53 partiti politici sono stati chiusi o dichiarati fuorilegge.

Solo l’Alta Corte, dalla sua fondazione nel 1963, ha chiuso 26 partiti e ancor prima della sua costituzione, 18 formazioni politiche erano state chiuse dai tribunali militari dopo il colpo di stato del 1980. Sei partiti sono stati chiusi dai tribunali locali tra il 1946 e il 1961.

Un partito fu chiuso per decisione del Consiglio di sicurezza nazionale nel 1983 e altri due partiti furono chiusi poco dopo la fondazione della Repubblica: il Partito repubblicano progressista nel 1925 e il Partito repubblicano del popolo, chiuso nel 1931. Allora non era consentito il pluripartitismo.

Un cammino, quello della Repubblica turca, costellato di colpi di stato riusciti e di altri falliti, di processi riformatori che si sono arenati e di regressioni fortemente autoritarie con partiti messi al bando e media critici oscurati e chiusi; con giornalisti, intellettuali e politici d’opposizione dietro le sbarre.

L’HDP è diventato sempre più un partito chiave nel quadro politico del paese. La presenza di questa forza in Parlamento impedisce a Erdoğan di avere la maggioranza necessaria per conservare il suo potere. Il leader turco vede mese dopo mese i suoi consensi diminuire e, come è noto, dal 2018 non ha la maggioranza assoluta e dunque ha bisogno del suo prezioso alleato di estrema destra al quale ha offerto su un piatto d’argento la testa dell’HDP.

Ma molto probabilmente chiudere l’HDP non basterà a salvare Erdoğan. Perché perderebbe anche il voto curdo conservatore del sudest anatolico e senza questi consensi le elezioni in Turchia non si vincono, come dimostrano le precedenti votazioni.

Inoltre è da tener presente che i curdi sono abituati a essere messi fuorilegge e dunque hanno un piano B. Hanno già pronto un altro partito, pienamente operante, che è il Partito democratico delle Regioni (DBP), pronto a presentarsi alle elezioni.

I curdi hanno sempre saputo che quando la loro presenza sarebbe diventata scomoda per il regime, quest’ultimo avrebbe chiuso il loro partito come è accaduto ben sette volte e dunque quando fondano una organizzazione politica, contemporaneamente ne aprono una di riserva perché la legge sui partiti in Turchia richiede che una forza politica per operare deve avere sedi aperte e registrate in almeno 41 province, cioè nella maggior parte del paese. E l’interdizione dalla vita politica di 451 dirigenti di questo partito dovrebbe servire proprio a impedire che vi possano essere in libertà esponenti politici pronti a trasferirsi nel nuovo contenitore politico.

Per arrestare l’emorragia di consensi Erdogan gioca la carta che gli è più congeniale: alimentare il fuoco del nazionalismo estremo, provocando il caos per giustificare una dura politica securitaria. Il leader turco pensa di riconquistare così l’elettorato creando un clima di violenta polarizzazione come fece nel 2015, quando perse la maggioranza assoluta in Parlamento.

L’attacco all’edificio dell’HDP a Izmir ha dimostrato ancora una volta che esistono nel paese gruppi di militanti di estrema destra ultranazionalisti, armati, addestrati in Siria all’uso di armi da guerra che godono di impunità e protezione da parte delle autorità, come avveniva negli anni Novanta e che potrebbero essere pronti ad operare al servizio dell’alleanza AKP-MHP al potere del paese per intimorire l’opposizione.

Questo processo che si è aperto contro l’HDP ha messo in luce ancora una volta l’esistenza di crepe all’interno della coalizione di governo, AKP-MHP. Molti esponenti del Partito della giustizia e dello sviluppo sono fermamente contrari a una politica di ulteriore chiusura verso i curdi e spingono a che il presidente turco non assecondi le richieste dell’alleato ultranazionalista. Ritengono che questa alleanza con il partito dell’estrema destra, anti Nato e antioccidentale, che ha le sue radici nel movimento dei Lupi Grigi, stia imbottigliando il Presidente e provocando una ulteriore alienazione del voto curdo conservatore che nelle province del sudest aveva consentito all’AKP di portare in Parlamento una discreta pattuglia di politici curdi.

Con ogni probabilità una eventuale assenza dell’HDP nella prossima competizione elettorale non premierebbe l’AKP.

Inoltre una eventuale perdita della rappresentanza parlamentare del movimento curdo farebbe molto comodo anche al PKK che ha sempre visto nell’HDP un partito che gli ha tolto spazio, visibilità e potere contrattuale.

Non è un caso, come scrive nel suo portale l’analista e scrittore Murat Yetkin, che nel quotidiano Ozgur Politica, vicino al PKK, pubblicato in Germania, si chieda all’HDP di “ritirarsi dal Parlamento”. Il partito armato ha sempre puntato all’indebolimento del gruppo parlamentare del partito di Demirtas.

Una eventuale chiusura dell’HDP rappresenterebbe il crollo di uno dei miti fondativi dell’AKP: quello dell’abbandono della pratica autoritaria della chiusura dei partiti di opposizione. Molti si chiedono perché Erdoğan accetti di correre il rischio di passare alla storia come capo di un governo che chiude un partito come aveva fatto il potere kemalista e golpista nel corso della storia repubblicana contro i partiti islamisti.

Perché lascia che gli oppositori possano finire in galera e che siano interdetti dalla vita politica per almeno cinque anni come era accaduto a lui? Inoltre ricordiamo che anche il partito del Presidente fu oggetto di un tentativo di chiusura il 14 marzo 2008 su richiesta della suprema Corte d’Appello.

Il capo dello stato era giunto al potere nel 2002 promettendo di porre fine a tali pratiche antidemocratiche. L’ascesa di Erdoğan in politica iniziò nel 1994 quando fu eletto sindaco di İstanbul, ma un importante punto di svolta fu la sua prigionia per aver recitato alcuni versi di una poesia di Ziya Gökalp durante una manifestazione a Siirt nel 1997.

I versi incriminati recitavano così: “Le moschee sono le nostre caserme, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati”. Erdoğan fu riconosciuto colpevole di “incitamento all’odio religioso” e fu condannato a dieci mesi di reclusione, poi ridotti a quattro. La condanna subita non danneggiò la reputazione del giovane emergente leader, come i suoi accusatori speravano, anzi, ne rafforzò l’immagine di “uomo del popolo”, perseguitato dalla classe dirigente kemalista con accuse pretestuose.

Erdoğan fu quindi rimosso dal suo incarico di sindaco e fu nominato come fiduciario il suo vice.

In prigione, era conosciuto come “Şiir okuyan adam” (“L’uomo che legge le poesie”) e ciò aprì la strada alla fondazione Partito della giustizia e dello sviluppo e alla sua ascesa al potere.

Questo Erdoğan appartiene ormai ad un altro tempo rispetto a quello dei primi anni del suo mandato quando si fece promotore di una svolta storica: la cosiddetta “apertura curda” con l’inizio di un dialogo volto a risolvere politicamente l’annosa questione.

Ma quando si accorse che quell’apertura per lui era sterile perché non gli permetteva di ampliare in modo significativo il consenso tra l’elettorato curdo del sudest anatolico che era stato invece intercettato dall’HDP, il 24 luglio del 2015 cambiò strategia e iniziò a bombardare con i caccia le basi del PKK in nord Iraq e l’area del cosiddetto triangolo del terrore al confine con Siria, Iraq e Iran. E da allora nessun ministro o viceministro curdo ha fatto più parte di un suo governo.

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