La Convenzione di Istanbul siamo noi. Ma il governo italiano dov’è?
La Convenzione di Istanbul compie 10 anni e il 27 giugno ne saranno passati esattamente 8 da quando l’Italia l’ha ratificata. Un anniversario che D.i.Re celebra con una riflessione collettiva sintetizzata nel video La Convenzione di Istanbul siamo noi: perché è evidente che la Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica vive soprattutto grazie al costante impegno del movimento delle donne, delle associazioni, dei centri antiviolenza, della cosiddetta società civile, mentre le istituzioni ancora arrancano nel mettere davvero in pratica i suoi articoli, nonostante sia ormai una legge dello Stato italiano.
Con il convegno online La Convenzione di Istanbul siamo noi, organizzato da D.i.Re il 17 giugno – che ha visto oltre 400 partecipanti e tantissimi commenti entusiasti – “abbiamo voluto mettere al centro proprio il grande contributo che l’attivismo femminista ha saputo portare dentro le istituzioni fin dal momento della stesura del testo, che proprio per questo si è rivelato così innovativo e insieme così concreto, e poi in ogni fase del successivo cammino della Convenzione, fino alle sfide che oggi si presentano nel mutato scenario politico, in cui siamo chiamate a vigilare su continui tentativi di indebolire la Convenzione, anche semplicemente non applicandola nonostante sia ormai da 8 anni legge dello Stato come succede in Italia”, ha detto la presidente di D.i.Re Antonella Veltri.
Per esplorare il “noi” citato nel titolo D.i.Re ha riunito sei delle esperte e attiviste che si sono distinte, in questo decennio e oltre – ovvero fin dalla creazione del drafting commitee, il comitato di esperti/e scelti/e dai governi nel 2008 per scrivere la Convenzione – per l’energia instancabile con cui l’hanno “portata a casa”, ne hanno promosso la ratifica, ne hanno divulgato i contenuti, l’hanno usata per affermare il diritto delle donne a vivere libere dalla violenza e continuano a fare pressione affinché i governi attuino i cambiamenti che essa impone.
“La Convenzione di Istanbul ha riconosciuto la violenza contro le donne come fenomeno radicato nella società, nelle interazioni tra uomini e donne, in tutti i paesi del Consiglio d’Europa, per cui andava affrontata con un approccio omogeneo, e stabilito in un documento vincolante dal punto di vista legale il legame che c’è tra violenza maschile contro le donne e disuguaglianza di genere, fondando tale visione sul rispetto dei diritti umani. Questo fa della Convenzione di Istanbul uno strumento unico nel suo genere, e di grande ispirazione ancora oggi in tanti contesti”, ha ricordato Ayşe Feride Acar, esperta turca della Middle East Technical University Ankara e prima presidente del GREVIO, il Gruppo di esperte/i sulla violenza incaricato del monitoraggio della Convenzione di Istanbul, oltre che già presidente del Comitato CEDAW che monitora la Convenzione delle Nazioni Unite per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne.
“Per la prima volta una Convenzione impone ai governi di istituire politiche integrate, perché questo fenomeno non può essere affrontato come questione individuale di singole coppie, famiglie o uomini con problemi di alcoolismo. È un problema sociale che richiede un impegno delle istituzioni e adeguate risorse”, ha aggiunto Acar.
Le Politiche integrate sono infatti una delle cosiddette “4 P” su cui poggia la Convenzione di Istanbul, insieme alla Prevenzione, alla Protezione delle vittime e alla Punizione dei colpevoli. Questi quattro principi dovrebbero informare anche il Piano nazionale antiviolenza triennale, elaborato dal Dipartimento per le pari opportunità in base alla legge 119/2013, “che è scaduto nel 2020 mentre il nuovo Piano, più volte annunciato dal Dipartimento Pari opportunità, non è stato ancora presentato”, ha ricordato Veltri.
“La presenza di tante esperte che venivano dalla società civile e avevano una conoscenza diretta e concreta della violenza maschile contro le donne è stata essenziale per la formulazione del testo”, ha evidenziato Rosa Logar, direttrice del Domestic Abuse Intervention Center Vienna, già vice-presidente GREVIO, che ha rappresentato il governo austriaco nel drafting committee, proprio come Acar rappresentò allora il governo turco. “Questa presenza è stata fondamentale anche per riuscire a superare i momenti di difficoltà trovando le mediazioni giuste tra orientamenti politici diversi, fino ad arrivare all’approvazione della Convenzione schivando il controllo dei ‘guardiani del patriarcato’ che si sono risvegliati dopo, come confermano gli attacchi alla Convenzione a cui assistiamo oggi”, secondo Logar.
“Le organizzazioni della società civile hanno avuto e continuano ad avere un ruolo cruciale”, riconosce Biljana Branković, ricercatrice e consulente internazionale di origine serba e attuale componente del GREVIO. “Ma dobbiamo creare più alleanze a livello europeo, perché ho la sensazione che le donne in Polonia, Ungheria, Turchia si sentano sempre più isolate. Inoltre nei paesi dove la Convenzione non è stata ancora ratificata, anche governi che sarebbero favorevoli alla ratifica non si espongono perché temono le reazioni dell’opinione pubblica contraria, sostenuta da autorità religiose, di qualsiasi religione, che hanno posizioni uniformi quando si tratta di questioni di genere”.
Il 1° luglio, a meno che il presidente Erdogan non ci ripensi, cosa improbabile, la Turchia sarà ufficialmente fuori dal trattato, e i movimenti delle donne e LGBTQ+ turchi hanno chiamato a una giornata di mobilitazione transnazionale, a cui ha aderito in Italia il movimento Non una di meno.
“L’assurda decisione del presidente Erdogan di uscire dalla Convenzione di Istanbul ha portato a grandi proteste delle donne in tutte le città e a uno straordinario lavoro per far conoscere la Convenzione di Istanbul, al punto che recenti sondaggi ci dicono che oltre il 70 per cento della popolazione oggi sa di cosa si tratta e ritiene che la Turchia debba restarne parte”, ha spiegato Acar.
“In altri paesi che pure non l’hanno ratificata vediamo che è utilizzata come base per la definizioni di misure contro la violenza alle donne a livello locale, sulla spinta ancora una volta delle organizzazioni di donne”, ha sottolineato Marcella Pirrone, avvocata di D.i.Re e presidente di WAVE Women Against Violence Europe Network, la rete europea dei centri antiviolenza, che ha moderato l’incontro per la parte internazionale.
“Cresce anche l’interesse di paesi che pur non facendo parte del Consiglio d’Europa intendono aderire alla Convenzione, un segnale incoraggiante, che potrebbe portare nel tempo a farne uno strumento con valore universale”, ha aggiunto Brankovic, “a fronte di orientamenti preoccupanti, come quello dell’Ungheria con la recente legge contro il movimento LGBTQ, e della Polonia”, paese nel quale hanno trovato radicamento le proposte di organizzazioni di estrema destra per ristabilire un cosiddetto “ordine naturale” di stampo patriarcale e confessionale, che attaccano frontalmente i diritti delle donne, delle persone LGBTQ e il movimento femminista.
Per questo Rosa Logar richiama con forza “l’Unione europea, le fondazioni private, tutte le istituzioni a sostenere attivamente le organizzazioni delle donne, come prescrive d’altronde la Convenzione di Istanbul, perché la politica non può continuare a pretendere che sia la società civile a farsi carico delle lotte per affermare i diritti umani basandosi solo sul volontariato”.
Per Paola Degani, esperta e ricercatrice del Centro diritti umani dell’Università di Padova: “L’impianto della Convenzione di Istanbul, con il suo forte radicamento nella prospettiva dei diritti umani è molto importante, perché oggi in molti paesi è difficile contestare i diritti umani proprio per il quadro di norme internazionali e nazionali che è stato costruito nel tempo. D’altro canto non dobbiamo dimenticare quanto le donne abbiano contribuito a modificare la prospettiva dei diritti umani universali”, ha aggiunto Degani, “radicandola su un terreno concreto, portando nei trattati il tema del potere, infrangendo la divisione tra pubblico e privato e stabilendo il cardine della due diligence, ovvero l’obbligo per gli Stati di intervenire per assicurare il rispetto dei diritti umani”.
Il rischio di vedere erose le garanzie poste dalla Convenzione esiste però, e non ha a che fare solo con il cambiamento dello scenario politico, ma anche con quello che può essere considerato “un successo del movimento delle donne e dei centri antiviolenza”, secondo Oria Gargano, presidente di Be Free -Cooperativa sociale contro tratta, violenze, discriminazioni, “che si sono impegnati tantissimo perché la violenza contro le donne diventasse visibile. Oggi, proprio per questo, vediamo che chiunque, senza alcuna conoscenza e competenza, interviene sulla questione, con una progressiva delegittimazione dei centri antiviolenza che si vede anche, molto concretamente, nella formulazione dei bandi destinati a sostenerli, a cui può accedere chiunque”.
Elena Biaggioni, avvocata penalista e referente del Gruppo avvocate di D.i.Re, che ha coordinato la discussione tar le esperte italiane, ha sottolineato “la difficoltà a riconoscere le competenze in materia di violenza, perché i centri antiviolenza anziché essere considerati luoghi di eccellenza dove la violenza viene affrontata nel modo corretto, vengono considerati come ‘di parte’ e questo ne mina l’autorevolezza”.
Per Gargano, “Fare interventi gender neutral è non solo sbagliato, ma criminale, perché si ricacciano le donne nella sfera familistica nella quale stanno soffocando insieme ai loro figli, che vengono allontanati a forza dalle madri dai tribunali come abbiamo visto accadere in questi giorni”.
L’ultimo caso in ordine di tempo è quello avvenuto il 15 giugno a Pisa, dove un bambino di 8 anni è stato prelevato a forza da 11 poliziotti insieme ai servizi sociali, sfondando la porta del bagno dove si era rinchiuso, mentre la madre era costretta a stare in un’altra stanza sorvegliata dagli agenti.
“Il problema è il riconoscimento stesso della violenza nelle aule dei tribunali”, ha spiegato Titti Carrano, avvocata civilista e già presidente di D.i.Re, al cui patrocinio e impegno si devono due importanti sentenze di condanna dell’Italia da parte del Consiglio d’Europa, quella sul caso Talpis e quella recente relativa allo stupro di gruppo di Firenze, che ha riconosciuto la vittimizzazione secondaria che avviene nei tribunali.
“La Convenzione di Istanbul è uno strumento potente per il cambiamento e dal 2016 le sezioni unite della Cassazione ci ricordano che essa è vincolante per il nostro paese. Ma prevedere dei diritti senza favorire l’accesso alla giustizia ha come risultato di non rendere effettive le garanzie previste dalle leggi”, ha sottolineato Carrano, notando come “per le donne è difficilissimo essere credute nei tribunali per via della scarsa preparazione degli operatori di giustizia sulla violenza maschile contro le donne e per l’incidenza del substrato culturale italiano caratterizzato da profondi stereotipi e pregiudizi nei confronti delle donne”.
Unanime il richiamo alla necessità urgente della formazione sulla Convenzione di Istanbul per tutti/e coloro che intervengono sulla violenza contro le donne, da realizzarsi con risorse adeguate e dedicate, “non come nel Codice Rosso, dove è prevista sì la formazione, ma senza risorse”, evidenzia Carrano.
“La Convenzione di Istanbul siamo noi, ma oggi c’è bisogno di un ‘noi’ più grande, un ‘noi’ composito, multidisciplinare, fatto di istituzioni e società civile, di giovani, di donne e di uomini, che attui davvero tutti i cambiamenti necessari per realizzare pienamente la Convenzione di Istanbul”, ha detto in conclusione la presidente di D.i.Re Antonella Veltri.