La ct Milena Bertolini: «Investire nello sport per formare la futura società civile»
Nel 1984 arriva l'occasione di giocare a Reggio Emilia con l'allora A.C.F. Reggiana, che militava nel campionato di Serie B. «Gli anni alla Reggiana sono cresciuta con delle amiche e delle compagne di squadra. Alla terza stagione dopo il mio arrivo abbiamo conquistato la promozione in serie A». Una promozione storica per la squadra che lascia per trasferirsi a Prato, ma solo per un anno. Al ritorno a Reggio la vittoria dello scudetto con 12 punti di vantaggio sulla seconda. Poi tante le squadre in cui gioca dal Bologna al Monza, dal Modena al Pisa, ma ricorda con particolare calore l'anno a Sassari: «L’anno in Sardegna mi ha fatto scoprire la bellezza dei sardi, sapere cosa significa il vero mare. A livello di scoperte è stato il più significativo».
Il debutto in Nazionale a 24 anni avviene in una partita rimasta epica nella storia delle azzurre. L'Italia affrontò l'Inghilterra in un'amichevole giocata per la prima volta nello stadio di Wembley davanti a ottantamila spettatori. La Nazionale italiana uscì dal campo con la vittoria di 4-1 grazie alla poker di gol segnati da Carolina Morace. Di quel giorno Bertolini ricorda: «Siamo entrate in spogliatoi enormi che solo il mese prima erano stati il camerino di Madonna in occasione del suo concerto. Io venivo dagli spogliatoi delle parrocchie, che magari per terra avevano anche la moquette. La nostra partita era prima della finale di coppa d’Inghilterra e lo stadio si è riempito» sottolinea Bertolini, tornando poi con la memoria ad un altro debutto in Nazionale, quello da allenatrice: «Il debutto come calciatrice è stato più inconsapevole, mentre il debutto come allenatrice ai Mondiali è stato molto vissuto dentro perché era il risultato di anni di lavoro e sacrificio». Anni che l'anno vista allenare e allo stesso tempo lavorare: «Di giorno lavoravo in una cooperativa di progettazione ambientale e la sera mi allenavo, poi ho iniziato ad allenare le giovanili e a fare l’opinionista sportiva» racconta, aggiungendo: «Ho allenato dai bambini di 5 anni a una prima squadra in eccellenza. Sono arrivata ad allenare la Nazionale nel 2017 a 51 anni, dopo 30 anni di gavetta».
Un traguardo importante in un momento di forte cambiamento per il calcio femminile italiano. Era arrivato il momento di far fare un salto di qualità al movimento e la Nazionale ha fatto la sua parte. «Quando alleni un club hai una quotidianità, in Nazionale non ce l’hai. La difficoltà sta nel fare sintesi delle loro qualità e trovare la soluzione giusta per farle rendere al massimo avendo poco tempo» sottolinea Bertolini, che aggiunge: «Il senso di responsabilità in Nazionale è molto più alto perché rappresenti il Paese e in questo momento rappresenti il movimento del calcio femminile: la nazionale non fa bene se i club non lavorano bene e se la nazionale fa bene i club non guadagnano. È un ciclo virtuoso».
Un ciclo virtuoso che ha avuto un'accelerazione con la qualificazione dell'Italia ai mondiali di Francia 2019 dopo vent'anni di assenza e al posizionamento delle azzurre fra le otto squadre più forti al mondo. Ma oltre ai risultati sul campo, hanno conquistato altri aspetti di questa squadra: «La squadra ha espresso un bel calcio, fatto di tecnica, armonia ed eleganza, impregnato di valori sportivi che ti toccano l’anima. Le nostre caratteristiche erano non mollare su ogni pallone, sacrificio, vivere insieme le cose. Questo ha colpito chi ci ha seguito. Il gruppo era fatto da atlete che sono cresciute assieme e avevano un obiettivo comune: farsi conoscere, far valere i propri diritti e portarsi dietro il loro mondo, quello che avevano vissuto. Questa è la forza che hanno avuto. Per loro partecipare ai mondiali era un sogno, felicità allo stato puro: gli stadi pieni, il tifo, sentirsi considerate come atlete, sentirsi valorizzate, seguite dai media» ricorda Bertolini che aggiunge: «Ci vuole molta passione e bisogna credere in quello che si fa. Eravamo tutte proiettate verso lo stesso obiettivo. Il bene comune era al primo posto, in questo modo si ottiene di più della somma delle individualità».
E il post mondiali? «Le prime partite di club hanno creato qualche scompenso, ma noi veniamo da un calcio fatto davanti a nessuno. Non è stato difficile riadeguarsi al senso della realtà. Ma le cose stanno cambiando velocemente. Questo porta con sé anche dei rischi. «Adesso che ci sono le risorse economiche e le società sportive investono nel calcio femminile, arrivano gli allenatori uomini. Ci sono tante donne brave che però non vengono prese in considerazioni perché chi decide sono dirigenti uomini. Si ha il pregiudizio che le donne sappiano meno dal punto di vista tattico e siano più mamme. In realtà è importante avere allenatrici e dirigenti donne perché il calcio femminile può contaminare il calcio maschile con le sue caratteristiche: spirito di sacrificio, correttezza, fair play. Il calcio maschile è dominato da altre logiche».