Noi che potevamo essere Saman (28/06/2021)
Ultima, ma non ultima, incontriamo Takoua Ben Mohamed, di origine tunisina, impegnata nella promozione del suo nuovo libro, una graphic novel autobiografica intitolata “Il mio migliore amico è fascista”. L’artista è arrivata in Italia a Valmontone all’età di otto anni, graphic journalist, specializzata all’Accademia di cinema di animazione, ha fatto anche studi di giornalismo. Collabora con diverse riviste per bambini e per adulti e ha pubblicato numerosi libri. Insieme a due dei suoi fratelli ha fondato una casa di produzione cinematografica tra Londra e Roma.
«Sono arrivata in Italia nel ‘99 e come tutti i bambini mi sono ambientata facilmente e non ho subito il trauma del trasferimento. I nostri vicini, che io chiamavo nonna Ada e nonno Giovanni, erano per noi parte della famiglia e in quel contesto della provincia romana vivevamo senza problemi. All’inizio il mio unico mezzo di comunicazione era il disegno, perché non avevo ancora imparato l’alfabeto latino. Le cose sono cambiate dopo l’11 settembre 2001, e dopo il nostro trasferimento nella capitale. Ricordo gli sguardi diffidenti, le parole velenose contro me e la mia famiglia. Era un momento in cui era cambiato il mondo e per me è stato tutto piuttosto devastante. Questo però non mi ha abbattuta, anzi, mi ha spinta a impegnarmi e lottare per i diritti umani, a partecipare a incontri e manifestazioni. La mia esperienza famigliare, il modo in cui abbiamo vissuto la storia della dittatura in Tunisia mi hanno resa molto sensibile e attenta a certe tematiche e questo ha fatto nascere in me la passione per il disegno e il graphic journalism di denuncia».
La scelta di andare controcorrente non l’ha mai spaventata. «Ho girato il mondo da sola, dagli Stati Uniti all’Asia Centrale, non ho mai avuto nessun problema con loro, anzi. Anche quando ho scelto la scuola ho fatto di testa mia, ho sempre seguito il mio istinto, anche quando ho sbagliato. A livello comunitario ho ricevuto a volte delle critiche da parte di chi non riteneva l’arte un vero mestiere. Da giovane donna figlia di migranti e musulmana, cresciuta in Italia, ho sempre ascoltato solo me stessa, senza farmi scoraggiare, né temere i giudizi per come mi vesto, per come vivo, per chi frequento. Molti amici non hanno avuto invece famiglie così aperte, perché le loro famiglie non capivano che i loro figli hanno una mentalità diversa dalla loro, essendo nati e cresciuti qui. Le due generazioni dovrebbero comunicare di più. Forse, come cosiddette secondo generazioni, ci siamo concentrati molto su come contrastare il problema del razzismo in Italia, su come affrontare lo sguardo occidentale su di noi, ignorando i conflitti interni alle comunità e tra le generazioni. Serve, quindi, comunicare, venirsi incontro, cercare di comprendersi a vicenda, con la consapevolezza di essere cresciuti in contesti diversi», afferma con sicurezza. «Ho visto amiche scappare di casa perché ostacolate o minacciate dalle famiglie. Per fortuna sono casi isolati, che vanno però affrontati con la dovuta attenzione. Nei casi di minaccia non ho dubbi, allontanarsi dal contesto abusante, denunciare, affidarsi a gente specializzata e competente, che sia in grado di garantire protezione. Credo che noi figli di migranti stiamo costruendo un ponte, anche se il processo di costruzione è lento. Credo che, più che dialogare con gli adulti, come seconde generazioni dobbiamo parlare coi giovani e giovanissimi perché l’Italia sta diventando interculturale anche se molti non lo vogliono vedere. C’è una quotidianità che vivono i figli di migranti e i ragazzi autoctoni che rappresenta una nuova realtà, una “normalità” che molti faticano, da una parte e dall’altra, ad accettare».