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Un primo luglio transfemminista e transnazionale contro l'attacco patriarcale

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

In Italia, in Europa e in tutto il mondo, l’attacco patriarcale e la violenza contro le donne e le soggettività LGBT*QIA+ continuano a intensificarsi. Sappiamo bene che la violenza si manifesta in ogni ambito della nostra vita e in moltissime forme, e di cui i femminicidi sono solo quella più visibile.

Solo in Italia, ci sono 45 donne uccise dall’inizio dell’anno. Eppure, mentre il Piano nazionale antiviolenza è scaduto ormai da mesi, il contrasto alla violenza maschile e di genere e il sostegno ai Centri antiviolenza non hanno nessuno spazio nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. La violenza è gestita in maniera emergenziale e scarsissimi sono gli investimenti economici e politici in tema della prevenzione necessaria per una trasformazione culturale radicale e per contrastare la matrice patriarcale di questa violenza.

Mancano ore di educazione sessuale e affettiva nelle scuole, manca formazione a tutte quelle figure che operano e lavorano con le persone giovani. Intanto la crisi conseguente alla pandemia ci colpisce ferocemente.

Il blocco dei licenziamenti non è riuscito a preservare i nostri posti di lavoro: a dicembre 2020, infatti, su 101mila posti di lavoro persi ben 99mila erano di donne; l’imminente sblocco dei licenziamenti non potrà che peggiorare questa situazione, dimostrando ancora una volta come il peso della pandemia e le sue conseguenze economiche ricadano soprattutto sulle nostre spalle.

A tutto questo il governo risponde con la promozione di politiche autoimprenditoriali per le donne, lo sfruttamento mascherato da ‘formazione permanente’ e briciole di welfare familistico. Il Family Act fa della maternità l’unico legittimo canale di accesso a sussidi miseri e razzisti, perché per beneficiarne sono necessari criteri di residenza che escludono la maggior parte delle persone migranti, mentre d’altra parte Draghi non si fa scrupoli a scendere a patti con quelli che lui stesso ha definito dittatori per ostacolare in ogni modo la libertà di movimento.

Quella prevista dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) è una vera e propria pianificazione patriarcale e familistica di uscita dalla crisi pandemica, che presenta il lavoro da casa come ultima frontiera della conciliazione tra lavoro e famiglia, ma per noi significa reperibilità continua, orari che si estendono all’infinito senza un’adeguata retribuzione, spese a nostro carico. Lavorare da casa quando bisogna farsi carico del lavoro domestico e di cura per noi vuol dire uno sfruttamento sempre più intenso.

I licenziamenti, le discriminazioni, i ricatti, le molestie sul lavoro sono una delle facce con cui la violenza patriarcale si manifesta nelle nostre vite.

Senza autonomia economica e libertà di movimento non è possibile nessun percorso di fuoriuscita dalla violenza, senza la garanzia di un reddito di autodeterminazione e un permesso di soggiorno svincolato dalla famiglia e dal lavoro qualsiasi governo non farà altro che riempirci di vuote parole di indignazione contro i femminicidi.

La violenza patriarcale si manifesta nei continui attacchi alla libertà di decidere sui nostri corpi e sulle nostre vite, al diritto all’aborto, in tutte quelle narrazioni che ci vorrebbero ancorare al ruolo di madri e mogli nella famiglia tradizionale e eterosessuale, come quella messa in scena dal primo ministro Draghi nella vergognosa passerella degli Stati Generali della Natalità. L’altra faccia di questa riaffermazione della maternità come destino naturale per lə donnə è l’opposizione reazionaria al DDL Zan. Anche se si tratta di una proposta insufficiente ad arginare la violenza omolesbobitransfobica e le sue cause sociali, per noi è del tutto inaccettabile che venga attaccata in nome dei diritti delle donne.

L’opposizione al DDL Zan è l’insopportabile tentativo di difendere quella famiglia patriarcale dentro la quale si consuma quotidianamente la violenza maschile e di genere che schiaccia le soggettività dissidenti e le donne che non accettano di essere identificate con ruoli, generi e posizioni in cui non si riconoscono. Quest’ordine basato sulla violenza è lo stesso che noi donne, lesbiche, trans, froce, bisessuali, persone intersex e migranti sfidiamo ogni giorno con le nostre vite e la nostra libertà.

Proprio in questo contesto di attacco globale alle donne e alle persone LGBTQIA+, il 26 marzo Erdogan ha decretato l’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

Pochi giorni dopo, la Polonia ha dichiarato di voler scrivere una Convenzione alternativa, basata sulla centralità della famiglia, e ha proposto di estenderla ad altri paesi dell’Est europeo. Sono due episodi di un unico contrattacco patriarcale contro donne e persone LGBTQIA+ che ci riguardano direttamente e ci chiamano in causa. La Convenzione di Istanbul è il primo trattato internazionale giuridicamente vincolate per gli stati che l’hanno ratificato: per questo motivo è un documento scomodo.

I partiti ultra conservatori accusano la Convenzione di indebolire la famiglia tradizionale, di incrementare i divorzi e di favorire le rivendicazione delle comunità LGBT*QIA+. Una strumentalizzazione ideologica per nascondere un dato sempre più evidente, ossia che l’unità familiare spesso si basa sulla violenza e sulla sottomissione dellə donnə. La Convenzione richiede agli stati di intervenire contemporaneamente su protezione delle vittime, procedimento contro i colpevoli, prevenzione e politiche integrate. Al di là dei paesi che minacciano il proprio ritiro dalla Convenzione, è grave anche la situazione di quei paesi che, pur avendo ratificato il trattato, non lo stanno rendendo pienamente attuativo, come accade in Italia. Gli obiettivi di leggi e convenzioni promosse per prevenire sono spesso disattesi non solo per mancanza di fondi ma per una precisa volontà politica di non affrontare il problema alla radice.

La violenza istituzionale evidente nei tribunali che continuano ad avvalorare una teoria ascientifica come la PAS, consentono ai padri violenti e/o abusanti l’affidamento d* figlə a discapito delle donnə che coraggiosamente li hanno denunciati.

Per tutto questo il primo luglio, la data ufficiale di uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul, Non Una Di Meno si unirà alle proteste in Turchia, nell’Europa dell’Est ma non solo.

Con la stessa rabbia che ci ha animate nelle strade di Verona Città Transfemminista, quando abbiamo contestato il World Congress of Family, scenderemo ancora una volta in piazza: saremo parte della mobilitazione transnazionale lanciata dai movimenti delle donne e delle persone LGBTQIA+ in Turchia e della rete E.A.S.T. – Essential Autonomous Struggles Transnational, in connessione con le mobilitazioni femministe e transfemministe contro la violenza maschile e di Stato in America Latina, per dire chiaramente che non accetteremo di pagare l’uscita dalla crisi sociale pandemica al prezzo della nostra libertà.

Insieme ai Centri Femministi anriviolenza e insieme alle reti LGBTQIA+ che da mesi portano avanti la lotta per reclamare #MoltoPiuDiZan, insieme alle lavoratrici, lə sex workers e le persone migranti che stanno combattendo contro l’impoverimento della loro esistenza e il razzismo, vogliamo costruire una giornata di mobilitazione che tracci la strada delle nostre lotte e alleanze future. Il messaggio deve essere chiaro ancora una volta: non abbassiamo la testa, non restiamo in silenzio!

Se toccano un* toccano tutt*: ci vogliamo vive, ci vogliamo libere!

Pubblicato sul sito di Non Una Di Meno

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