G20 delle donne, cinque punti su cui lavorare con urgenza: mi aspetto autocritica
Quando mi viene detto che le donne ormai hanno tutti i diritti e non sono più discriminate “come una volta”, penso sempre: ma “come una volta” cosa significa? Che non vengono più picchiate o abusate? Strano, perché i femminicidi sono già 32 dall’inizio di quest’anno. O forse significa che possono camminare per strada in modo sicuro, mica “come una volta”. Però anche questa opinione ha dell’incredibile, visto che c’è sempre maggiore attenzione sul tema delle molestie in strada (catcalling), anche grazie alle reti di supporto nate sui social.
Ah, magari è più probabile che chi dice che non siamo più discriminate si riferisca al mondo del lavoro: ogni donna può scegliere il mestiere che vuole, ricevendo la stessa paga degli uomini e le tutele riservatele in caso di gravidanza. Nel mondo dei sogni, forse. Sul pianeta Terra, invece, il pay gap e l’occupazione femminile saranno ancora una volta al centro del W20, lo spazio dedicato all’empowerment femminile promosso dal G20, quest’anno con la presidenza italiana di Laura Sabbadini (statista).
Nonostante siano globalmente riconosciute come le principali economie del mondo, in 18 paesi facenti parte del G20 le donne guadagnano il 15% in meno rispetto ai colleghi, e il loro tasso di occupazione globale è del 55%, contro il 78% maschile. Possiamo dedurre, quindi, che sicuramente la condizione femminile è diversa rispetto a cinquant’anni fa. È altrettanto vero, però, che di passi da fare ce ne sono ancora molti.
Il W20 ha stilato cinque punti su cui lavorare con urgenza, spero con la consapevolezza che c’è tanta autocritica da fare tra i paesi del G20, sia in termini di accesso all’istruzione e al mondo del lavoro, che di garanzia dei diritti ad esso legati. In particolare, mi riferisco al nesso tra la condizione lavorativa femminile e il congedo di maternità/paternità. Il caso più eclatante è quello degli Stati Uniti, dove il periodo di assenza dal lavoro dovuto a una gravidanza non è quasi mai retribuito, poiché non esiste una legge nazionale che obblighi i datori di lavoro, lasciando spesso donne e famiglie schiacciate da una montagna di spese medico-sanitarie.
Secondo quanto riferito dalla ricerca Unicef del 2019 sul supporto alle famiglie nei paesi più ricchi, l’accesso al congedo di paternità è più raro. Eppure, sarebbe un’ottima soluzione per bilanciare il lavoro di cura e consentire alle donne un rientro più sereno sul posto di lavoro o l’effettiva ricerca di un nuovo impiego. Su 41 Paesi presi in considerazione, tra cui l’Italia, la durata del congedo per i neo-papà è in media di una o due settimane. Tra i membri del G20 è il Giappone ad avere il congedo di paternità più lungo, eppure una scarsa percentuale di padri pronti a usufruirne. Le motivazioni? Perdita salariale e ostacolo alla carriera. Che è un po’ come dire: se le conseguenze economiche ricadono sulle donne è ok, per noi invece il sistema non funziona.
In Europa, oltre ai paesi nordici da sempre più attenti al ritmo familiare condiviso, da quest’anno si aggiunge la Spagna, equiparando sedici settimane di congedo retribuite per mamme e papà. In Italia, finalmente, non siamo più a un punto morto, cioè i dieci giorni previsti dall’Unione Europea. La prossima settimana si discuterà alla Camera il cosiddetto Family Act, una legge sulle politiche familiari in cui compare la proposta di congedo di paternità fino a tre mesi. Per la prima volta si parla di “valorizzazione della famiglia” con un’apertura da XXI secolo, anche se mi sarebbe piaciuto si fosse accettata l’idea di Giuditta Pini (deputata Pd) di parlare di “famiglie”, al plurale, data la vastità di storie e vite che compongono la categoria. Ovviamente ci sarà da capire se e con quali tempi saranno disponibili i fondi per il congedo egualitario, ma intanto ci accontentiamo di poterne discutere, ché qui sembra già un miracolo.
Come per ogni obiettivo, fare meglio è difficile se non si hanno chiare le cause del problema. Ancora una volta, tutto nasce dalla figura stereotipica della donna sempre pronta ad accudire la famiglia, in contrapposizione all’uomo che deve provvedere a mantenerla economicamente, senza partecipazione al carico mentale e domestico. Tutto sbagliato, tutto da sradicare (a meno che non sia la donna a scegliere senza pressioni né costrizioni di dedicarsi esclusivamente al mestiere genitoriale, ça va sans dire). Una visione talmente retrograda – che intacca economia e lavoro – che non capisco come ci si possa definire “paesi più sviluppati al mondo” continuando a perpetrarla.