profili normativi e giurisprudenziali degli atti persecutori sul web
Con il termine inglese stalking - derivante dal verbo “to stalk” - si è soliti indicare una serie di atteggiamenti e atti persecutori tenuti da un soggetto - il c.d. stalker - nei confronti di un altro soggetto – vittima, al fine di ingenerare nello stesso paura ed ansia, compromettendo, in tal modo, il normale svolgimento della vita quotidiana. Il fenomeno è trasversale e diffuso senza limiti di sesso, nazionalità o altro tipo di orientamento religioso e/o filosofico. L’unico elemento certo, però, è che si tratta di condotte dove i perpetratori sono nel 70,6% uomini, mentre per le donnestalker la percentuale scende al 18,1%.
Secondo i dati ISTAT, si stima che il 21,5% delle donne fra i 16 e i 70 anni (pari a 2 milioni e 151 mila) abbia subito comportamenti persecutori da parte di un ex partner nell’arco della propria vita. Se si considerano le donne che hanno subito più volte gli atti persecutori queste sono il 15,3%, mentre quelle che hanno subito lo stalking nelle sue forme più gravi sono il 9,9%.
Nell’arco della propria vita, lo stalking subito da parte di altre persone diverse dall’ex partner è invece del 10,3%, per un totale di circa 2 milioni e 229 mila donne. Complessivamente, dunque, sono circa 3 milioni e 466 mila le donne che hanno subìto stalking da parte di un qualsiasi autore, pari al 16,1% delle donne. Nel 70% dei casi gli atti persecutori si sono verificati più volte a settimana. Il comportamento persecutorio subito al momento o dopo la separazione è continuato per mesi per il 58,8% delle vittime e nel 20,4% dei casi è durato più di un anno.
Il dato che rende il quadro generale ancora più drammatico è che il 78% delle vittime non si è rivolto ad alcuna istituzione e non ha cercato aiuto presso servizi specializzati; solo il 15% si è rivolto alle forze dell’ordine, il 4,5% ad un avvocato, mentre l’1,5% ha cercato aiuto presso un servizio o un centro antiviolenza o anti stalking.
Quest’ultimo aspetto non fa che sollevare il quesito su quali siano le tutele offerte alle vittime di stalking da parte dell’ordinamento giuridico e cosa ancora manchi, tanto da un punto di vista normativo quanto giurisprudenziale, e ciò soprattutto quando la tecnologia amplifica le potenzialità offensive di condotte già di per sé estremamente dannose per chi le subisce. L’utilizzo di mail ossessive,video e messaggi personali lanciati attraverso i socialnetwork non sono meno opprimenti di telefonate assillanti e appostamenti sotto casa.
1. Lo stalking in rete: profili normativi
Ciò premesso, bisogna aggiungere che l’uso crescente della tecnologia, anche in ragione dei limiti imposti dalle misure di contenimento della diffusione del Covid-19 nell’ultimo anno, ha determinato lo spostamento di tutte le relazioni nel mondo digitale, ivi comprese le forme patologiche di interazione. Questo ha dato maggiore spazio a nuove situazioni criminose, tra le quali figura anche lo stalking, che trasferito sui social, sulle app di messaggistica istantanea o sulle caselle e-mail, significa sostituire gli atti persecutori in strada con condotte analoghe ma in uno spazio pressoché sconfinato.
In un primo momento, con il Decreto Legge n. 11 del 23 febbraio 2009, convertito con la Legge n. 38 del 23 aprile dello stesso anno, veniva introdotto nel codice penale – alla sezione III “Delitti contro la libertà morale”, del Capo III “Dei delitti contro la libertà individuale”, del Titolo XII “Dei delitti contro la persona” – l’art. 612-bis c.p. per cui è punito “chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”. Con lo stesso intervento normativo veniva introdotto anche il comma 2 con la previsione di un aumento di pena nel caso in cui il fatto fosse stato “commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa”. Si volevano cioè punire gli atti persecutori in generale ma aggravando la sanzione per le ipotesi di stalking da parte del partner, ex partner o qualunque altra persona vicina alla vittima.
Tuttavia, è solo con il Decreto Legge n. 93 del 14 agosto 2013, poi convertito con la Legge n. 119 del 15 ottobre 2013, che il legislatore ha preso in considerazione la possibilità di atti persecutori tramite i mezzi offerti dalla rete - andando di fatto ad aggiungere alla disposizione preesistente il c.d. cyberstalking, ossia gli atti persecutori compiuti mediante l’utilizzo della tecnologia - modificando lo stesso comma 2 con la previsione della possibilità che le condotte di cui all’art. 612-bis potessero essere commesse anche “attraverso strumenti informatici o telematici”.
E’ interessante rilevare come l’introduzione del reato di atti persecutori “offline”, nonché le relative modifiche che hanno condotto alla disciplina di tali atti anche “online”, sia avvenuta con Decreto Legge, ossia un atto normativo di carattere provvisorio, avente forza di legge e adottabile “in casi straordinari di necessità e urgenza” ai sensi dell’art. 77 Cost. Ciò è certamente dovuto all’aumento dei casi di stalking negli ultimi anni che ha reso indispensabile e non più rinviabile l’adozione di una previsione normativa che comprendesse questo tipo di condotte per rispondere sia ai fatti di cronaca, sia alle nuove possibilità di delinquere offerte dalle nuove tecnologie e dai social.
Infine, per quanto riguarda l’apparato sanzionatorio, il cyberstalking è lo stalking fatto online e quindi segue le stesse previsioni di legge di quest’ultimo. Per il reato di stalking l’art. 612-bis c.p. prevede una pena da sei mesi a cinque anni, su querela della vittima. Inoltre, come anticipato, “la pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”. Un aggravamento della sanzione fino alla metà è peraltro previsto se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi.
2. Cosa dice la giurisprudenza
Sempre più spesso i giudici si sono dovuti interrogare sulla possibilità di configurare fattispecie di stalking in rete. La stessa Suprema Corte di Cassazione ha, in più pronunce, applicato la disciplina di cui all’art. 612-bis alle ipotesi di cyberstalking, andando di fatto ad anticipare, e di certo ad incoraggiare, l’iniziativa successiva del legislatore che ha condotto all’integrazione del comma 2.
La Corte di Cassazione, V sez. penale, con sentenza n. 25488 del 24 giugno 2011, ha ribadito la rilevanza del reato di stalking confermando, nei confronti di un giovane, il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dall’ex ragazza convivente, vittima di atti persecutori.
In particolare l’imputato, dopo che la vittima aveva interrotto la convivenza, si era reso responsabile di continui messaggi inviati tramite Facebook e contenenti minacce ed ingiurie. Inoltre, non contento, aveva violato il domicilio della vittima e percosso la stessa cagionandole lesioni.
Secondo la Suprema Corte, nel caso specifico, i messaggi inviati tramite Facebook possono integrare il reato di stalking.
Già un anno prima, con sentenza n. 32404 del 2010, la VI sez. penale della Cassazione aveva statuito che “gli atti di molestia reiterati e idonei a configurare il delitto di stalking ex art. 612 bis c.p., possono concretarsi non solo in telefonate, invii di buste, sms, e-mail, nonché di messaggi tramite internet, anche nell’ufficio dove la persona offesa prestava il suo lavoro, ma possono consistere anche nella trasmissione da parte dell’indagato, tramite Facebook, di un filmato che ritraeva un rapporto sessuale tra lui e la donna”. Nel caso sottoposto ai giudici di legittimità, tali condotte avevano provocato nella vittima un grave stato di ansia e di vergogna che l’avevano costretta a dimettersi dal lavoro.
Con una successiva pronuncia, la Corte ha poi dichiarato che insultare e inviare messaggi minatori su Facebook alle stesse persone, può integrare il reato di stalking e non quello meno grave di diffamazione, se le azioni sono in grado di provocare uno stato di ansia e di paura nei destinatari; la pronuncia prendeva spunto dalla vicenda in cui un uomo, dopo che a causa della separazione dalla compagna erano stati tolti due dei suoi figli e affidati ai nonni materni, aveva perpetrato una serie di condotte persecutorie nei confronti degli ex suoceri (tra cui anche su Facebook), tanto da creare in loro un grave stato di ansia e il timore per la propria incolumità (Corte di Cassazione, sez. V penale, sentenza n. 21407 del 23 maggio 2016).
Recentemente, la V. sez. penale della Corte di Cassazione, in linea con la precedente giurisprudenza di legittimità, dopo aver riaffermato il principio per cui ”i messaggi o filmati postati sui social network integrano l’elemento oggettivo del delitto di atti persecutori […]”, ha precisato che “l’attitudine dannosa di tali condotte non è […] tanto quella di costringere la vittima a subire offese o minacce per via telematica, quanto quella di diffondere fra gli utenti della rete dati, veri o falsi, fortemente dannosi e fonte di inquietudine per la parte offesa”.
La sentenza in esame, in particolare, traeva origine dalla creazione di un profilo Facebook chiamato “lapidiamo la rovina famiglie” in cui l’imputato aveva postato foto, filmati e commenti con riferimenti alla sua ex amante, colpevole di aver confessato alla moglie l’esistenza della relazione extraconiugale con l’uomo.
Alla luce di ciò, i giudici di legittimità concludevano affermando l’irrilevanza della circostanza per cui le foto e i filmati offensivi avrebbero potuto essere ignorati dalla vittima non accedendo al profilo, poiché il danno è da ricondurre alla pubblicazione di quei contenuti e non alla presa visione degli stessi da parte della donna.
Infine, acristallizzare le considerazioni della nostra Suprema Corte secondo la quale il reato di cyberstalking è una forma specifica di violenza, è intervenuta la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) con la sentenza dell’11 febbraio 2020 nel caso Buturuga contro Romania (ric. n. 56867/15). I giudici di Strasburgo hanno infatti stabilito, all’unanimità, che in ossequio alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ed in particolare all’art. 3 sul divieto di trattamenti inumani e degradanti e all’art. 8 sul diritto al rispetto della vita privata (che include quello alla riservatezza della corrispondenza), «la c.d. cyberviolenza deve essere considerata […] a tutti gli effetti come violenza contro le donne e che, di conseguenza, le autorità nazionali non possono trattare episodi quali lo stalking via web, l’utilizzo abusivo degli account informatici di una donna da parte dell’ex marito o l’acquisizione di immagini e dati alla stregua di casi di violenza “comune”, ma devono prevedere l’applicazione delle regole più stringenti».
Nel caso di specie, si era rivolta alla Corte una cittadina rumena che aveva denunciato l’ex marito per i ripetuti episodi di violenza domestica e per l’utilizzo abusivo dei suoi account informatici, inclusa la sua pagina Facebook, l’intromissione nel computer, lo stalking via web e l’acquisizione di dati e immagini. Il pubblico ministero aveva archiviato il procedimento perché i comportamenti dell’uomo non erano stati considerati come “particolarmente gravi”.
3. Conclusioni
Per l’ennesima volta la giurisprudenza e il legislatore si sono trovati nella situazione di dover guardare il diritto vigente con gli occhi di chi assiste da qualche anno alle novità della c.d. era digitale. La diffusione di nuove tecnologie e strumenti di comunicazione e diffusione di contenuti hanno posto necessità prima inesistenti, che oggi chiedono di ridimensionare il diritto penale vigente. Si pensi ad esempio ad un’ordinanza restrittiva nei casi di stalking per mantenere la vittima al sicuro dai pedinamenti o dalle imboscate dello stalker: come si concilia questo strumento con le ipotesi di cyberstalking? Questo, tuttavia, non è l’unico quesito. Da un punto di vista della fattispecie incriminatrice, invece, bisogna chiedersi se l’integrazione del comma 2 dell’art. 612-bis avvenuta nel 2013 sia sufficiente. Sul punto, è importante l’indicazione che arriva dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza del 2020 nel caso Buturuga contro Romania: la cyberviolenza non può essere trattata alla stregua di casi di violenza comune. Se questo è vero, allora il cyberstalking non dovrebbe essere trattato come i casi di atti persecutori comuni, e ciò anche in considerazione della portata delle condotte.
Un intervento normativo mirato tramite la creazione di una fattispecie incriminatrice e misure di tutela ad hoc per le vittime di cyberstalking - sulla scia della Legge n. 69 del 19 luglio 2019 che ha introdotto il c.d. revenge porn o della Legge n. 71 del 18 giugno 2017 sul contrasto al c.d. cyberbullismo - potrebbe essere un ulteriore e decisivo passo avanti per garantire una piena tutela alle vittime tanto con un effetto maggiormente dissuasivo verso gli autori, quanto sul piano di maggiori garanzie per chi decide di denunciare. Perché se quest’ultima è la decisione migliore per tutelarsi, è indispensabile che vengano create le migliori condizioni per poterlo fare in piena libertà e tranquillità.
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