Gender Gap, ecco perché ci sono disparità uomini-donne nel mercato del lavoro
- La spiegazione di Azzurra Rinaldi, economista ed esperta di economia di genere
- Le cause sono storiche, socio-culturali, legislative, territoriali ed economiche
- Un fenomeno che inizia dopo la seconda guerra mondiale
Quali sono le cause del gender gap, la disparità di trattamento uomini-donne nel mercato del lavoro? Per comprendere a fondo le ragioni che hanno determinato il Gender Gap dobbiamo esaminare un ventaglio di aspetti storici, socio-culturali, legislativi, territoriali ed economici. “Storicamente datiamo l’apparire del gender gap con la fine della seconda guerra mondiale”, spiega Azzurra Rinaldi (nella foto), docente di Economia Politica presso l’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza e direttrice della Scuola di Economia di Genere, un centro di ricerca da lei fortemente voluto e dedicato alle tematiche legate al gender gap e a corsi formativi post-universitari sull’Economia di Genere. “In quel periodo le donne, che durante il conflitto avevano sostituito la forza lavoro maschile e generato reddito, furono rimandate a casa per dedicarsi alla cura della famiglia. C’è un libro interessante ‘The femenine mystique’ dell’americana Betty Friedan (Premio Pulitzer 1964), che spiega come la figura della donna confinata in casa è un ruolo costruito ad arte nel dopoguerra per ristabilire l’ordine costituito. Terminata la necessità, non era più ammissibile che le donne rimanessero nei posti di lavoro ed allora si creò la ‘mistica della femminilità’: se lavori fuori o studi troppo non sei femminile, il tuo ruolo è quello di stare a casa con i figli. Ed il gender gap si poggia proprio sul fatto che la donna, volendo essere accettata come tale, resti periferica rispetto alla società lavorativa, autoperpetuando il sistema di potere maschile. Nessuna categoria che detiene potere e privilegi, li cede spontaneamente. Quindi, il vero fulcro del problema è che aprire il mondo del lavoro alle donne, significa cedere potere”.
Culturalmente è necessario scardinare i pregiudizi che vedono la donna come il soggetto più adatto a dedicarsi alla cura della famiglia e a preferire il part-time come sua conseguenza diretta; la scelta tra famiglia e carriera come indicatore del valore della persona; l’estromissione dalle scelte finanziarie familiari e quindi il rafforzarsi della posizione di debolezza della donna, anche per questo spesso vittima di violenza.
Le leggi a tutela della parità di retribuzione
La Costituzione italiana (art.37) garantisce alla donna lavoratrice gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. L’Italia ha ratificato la Convenzione OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) sull’uguaglianza di retribuzione entrata in vigore nel 1953, e con la c.d. legge Anselmi (l.n.903/1977) all’art. 2 ha stabilito la piena parità retributiva tra lavori di eguale valore. A tutt’oggi la norma più recente è l’art. 46 del d. lgs. 11 aprile 2006 n. 198 che prevede che le aziende pubbliche e private con più di 100 dipendenti siano tenute ogni due anni a redigere un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in relazione allo stato di assunzioni, formazione, promozione professionale, livelli, passaggi di categoria o di qualifica, altri fenomeni di mobilità, intervento della Cassa integrazione guadagni, licenziamenti, prepensionamenti e pensionamenti, retribuzione effettivamente corrisposta. Nonostante questo, nel 2020, secondo il Gender Equality Index, il guadagno medio mensile delle donne italiane è inferiore del 18% rispetto a quello degli uomini.
“La legge Golfo-Mosca che ha obbligato alla presenza del 30% ed ora del 40% di donne nei cda delle società quotate in borsa, assieme alle ‘quote rosa’ in politica – dichiara la Rinaldi – non sono la soluzione ideale, ma di certo i dati europei ci dicono che sono modalità che velocizzano una transizione culturale che viceversa richiederebbe molto più tempo. Lo vedo come un male necessario, che però ha risollevato improvvisamente il tema della competenza femminile, mentre agli uomini non viene richiesta”.
Il divario salariale tra uomini e donne
In Italia, secondo il 28° Rapporto sulle Retribuzioni, il gender gap salariale riguarda tutte le categorie professionali (dirigenti, impiegati, quadri, operai) e a tutti i livelli. Gli stipendi variano a seconda della mansione e dell’inquadramento: in un anno, le operaie guadagnano in media 2.500 euro in meno degli operai; una donna quadro guadagna 3.500 euro in meno di un uomo. In percentuale il divario è meno marcato per i dirigenti (8,5%) rispetto ad impiegati (10,4%) e operai (10,5%).
Il gap si riduce nel settore pubblico (4,1%) perchè regolato dai contratti collettivi di lavoro e si allarga nel privato fino al 20,7%. Da notare all’interno di tale settore ulteriori differenze a seconda della dimensione delle imprese, dove si passa da un divario salariale dell’1,6% (impresa fino a 9 dipendenti), al 5,6% (49 dipendenti), fino al 18,5% (oltre 250).
Esistono disparità anche per tipologie di contratto: i dipendenti a tempo determinato hanno una retribuzione inferiore del 29,7% e quelli a part-time (dove il 73,4% sono donne) del 31,1%.
Relativamente alle posizioni ricoperte è difficile sfondare il cosiddetto ‘soffitto di cristallo’ che impedisce l’ascesa professionale delle donne, escludendole dai ruoli di maggior potere e guadagno: in Italia abbiamo solo il 32% di dirigenti donne; il 6,3% sono amministratrici delegate (e comunque guadagnano il 23% in meno degli uomini); nel settore universitario solo il 23% sono docenti ordinarie, il 38% associate ed il 47% ricercatrici.
Secondo la Commissione Europea, altra causa del gender gap è la segregazione settoriale, cioè il relegare l’occupazione femminile a lavori a bassa retribuzione, come l’assistenza sociale o l’educazione, dove, tra l’altro, non c’è possibilità di carriera, scatti di stipendio, incentivi, né straordinari. Un problema che sembra dimenticato riguarda le donne over 40, 50 o 60 anni che, qualora perdano il posto, sono difficili da reinserire nel mercato del lavoro e che dovrebbero essere formate in modo mirato su percorsi specifici.
Secondo Rinaldi “il problema della disparità occupazionale relativa alle nuove generazioni derivante dal fatto che esistano meno donne specializzate nei settori delle STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics), non si aggredisce stanziando fondi per incentivare settori di studio. Tra l’altro, i fondi di Next Generation EU che riceveremo attraverso il PNRR, sono condizionati al rispetto di alcune direttive europee vincolanti, relative a due settori cardine che sono Transizione Digitale e Transizione Verde, e andranno a beneficiare impiegati e imprese già esistenti; solo una parte è stata dedicata alla formazione. Il mancato accesso delle ragazze alle materie STEM è basato sulla falsa percezione indotta fin da bambine che i maschi siano più bravi in matematica, anche se sono loro ad avere i voti più alti”.
Gender gap: differenze Nord-Sud
“Dai dati del 2019 – afferma l’economista – risulta che l’occupazione femminile è oltre il 60% al Nord e il 33% al Sud: il dato è legato ad una spirale assurda e miope che attiene alla presenza di infrastrutture sociali soprattutto dedicate alla prima infanzia. Al Nord troviamo coppie di genitori entrambi lavoratori e produttori di reddito (il che si traduce in gettito fiscale), per cui il Comune è più ricco e può reinvestire sul territorio creando quelle infrastrutture che consentono di liberare la forza lavoro femminile, creando così un circolo virtuoso. Viceversa al Sud, vuoi anche per il perdurare di stereotipi legati alla opportunità o meno della donna di scegliere tra lavoro e famiglia, abbiamo nuclei monoreddito e quindi meno introiti per le casse dello Stato, che non può investire in asili nido, scuole a tempo pieno ed altri servizi per l’infanzia. Cambiare lo stato delle cose non è solo una questione di giustizia o di parità di genere, ma anche di efficienza economica perché consentirebbe di creare un’area territoriale più ricca, maggiore benessere ed indipendenza. Tra l’altro, purtroppo, i dati ci dicono che laddove le donne non guadagnano è più facile che incorrano in casi di violenza fisica e subordinazione psicologica. L’Italia è un Paese che non cresce da vent’anni, perché sul totale della popolazione che potrebbe lavorare, metà sono donne e sono occupate solo al 40%: è delirante pensare che lo Stato non faccia in modo di inserire nel mondo del lavoro proprio quel capitale umano femminile inespresso, riprendendosi così l’investimento iniziale speso in istruzione. Ci sono tantissime donne con alti livelli di cultura e preparazione costrette nel settore della cura familiare e non produttive di reddito”.
Gender gap: proposte di soluzioni
“Un’iniziativa abbastanza semplice – sostiene la Rinaldi – sarebbe equiparare il congedo di paternità a quello di maternità, scardinando così l’idea che sia solo la donna a dover conciliare lavoro e famiglia, ed affermando il diritto dei padri a creare fin dalla nascita una relazione con i figli, cosa vista di buon occhio dalle nuove generazioni. Secondo me, il congedo paternale deve essere obbligatorio com’è quello della madre ed equiparato in quanto a durata. Ad oggi la madre ha 5 mesi obbligatori, il padre 10 giorni. Questo crea il gender gap nel mercato del lavoro: considerato che l’Italia non si era ancora ripresa dalla crisi del 2009, e che l’anno scorso abbiamo chiuso con un -9% di PIL, al momento della scelta qualsiasi azienda preferisce assumere un uomo. La Spagna ha emanato una legge alla fine del 2020 stabilendo la perfetta equiparazione tra genitori: madre e padre hanno 6 settimane di congedo obbligatorio e 10 settimane di congedo facoltativo, da prendere insieme o alternativamente. Così si crea la rivoluzione. E’ stata approvata pochi giorni fa una legge proposta dall’onorevole Chiara Gribaudo per il Gender Pay Gap (parità salariale di genere), per l’equa retribuzione; inoltre, c’è anche una proposta di legge dell’onorevole Alessandro Fusacchia, per l’estensione a 3 mesi del congedo obbligatorio di paternità”.
Il Piano Europeo 2020-2025 per l’eliminazione del gender pay gap prevede la necessità di mobilitare tutte le politiche e le misure generali al fine di conseguire la parità di genere. In Italia tuttavia non si trova riscontro nelle risorse economiche del PNRR dedicate alle donne, dove “all’imprenditoria femminile – dice la Rinaldi – dei 220 miliardi totali sono assegnati solo 440 milioni. Se si studiano i dati a fondo, si evince che la realtà è molto diversa da quanto appare sui giornali nelle dichiarazioni politiche che non entrano nei dettagli tecnici e nelle cifre effettivamente stanziate”. “Lo stesso approccio si ripresenta per il tema di donne, giovani e Sud -prosegue l’economista – che, invece di essere valorizzate come le grandi potenzialità inesplorate del Paese, vengono solo indicate come le aree tradizionalmente deboli. Ma anche così e contrariamente a qualsiasi logica, questi tre settori restano fuori dai maggiori finanziamenti da cui ci si aspetterebbe fossero sostenuti. È un’opportunità che lo Stato perde”.
Garantire la parità di retribuzione uomo-donna consente a organizzazioni e aziende di attrarre i migliori talenti, indipendentemente dal sesso, usufruendo delle diverse potenzialità ed abilità specifiche. Ma per realizzare quest’obiettivo è necessaria una ferma volontà politica, ragione per cui è indispensabile la presenza paritaria di uomini e donne nei luoghi di decisione.