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Nel lager di Bolzaneto - L'Espresso

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

Prima di Bolzaneto, prima di arrivare alla caserma di Bolzaneto, c’era il viaggio. Durante questo tragitto «venivamo insultati ripetutamente, ci dicevano che andavamo in un posto dove ci avrebbero fatto morire e che eravamo delle zecche, comunisti, cioè insulti sopra la famiglia, cose così. E cose tipo zecche comunisti, vostra madre è una puttana. Cosa cazzo ci facevate qua? Vi porteremo in un posto dove morirete! Ve la faremo pagare». Con particolari più o meno simili si sono espressi in tanti che al termine delle giornate del G8 si ritrovarono a Bolzaneto, squarcio periferico genovese, nella Valpolcevera profonda e distante tanto dai luoghi degli scontri, quanto dalla scuola Diaz.

G8, 20 ANNI DOPO: IL DOSSIER

Arrivati alla caserma quasi tutti i testimoni hanno raccontato del benvenuto, il «comitato d’accoglienza» in un corridoio. «Vuole descriverci la situazione del corridoio come la ricorda?», chiede il Pm a un teste. «La situazione», risponde, «è che era appunto un corridoio, da quando si superavano i primi tre gradini si iniziavano a subire percosse e violenze dalla prima stanza». Dopo il «comitato d’accoglienza» era il turno delle «ali di corvo», un’altra espressione che abbiamo imparato a conoscere udienza dopo udienza, strazio dopo strazio. «Ci facevano stare a gambe larghe e fronte al muro. Mani alzate, sopra la testa, appoggiate contro il muro». A un testimone il pm chiede quanto tempo sia stato costretto in questa posizione. «So che sono rimasto in questa posizione», risponde in aula una vittima, «a lungo ed anche fuori dalla cella prima della…, della visita medica. Tanto da farmi svenire prima della visita medica».

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Altri frammenti di testimonianza sul clima respirato nella caserma, il cui scopo originario doveva essere quello di «smistamento» degli arrestati, prelevati a grappolo dalle manifestazioni: «Mi ricordo che è arrivata una ragazza che era molto spaventata, era molto impaurita, non capiva cosa stava succedendo e s’è sentita male, tipo le è venuta nausea, penso, aveva… le veniva da vomitare, ha chiesto più volte “posso andare in bagno, sto male, posso andare in bagno?”, le hanno sempre detto di no, finché non ha vomitato poco più… cioè lì vicino a dove stava inginocchiata, al che ha chiesto uno straccio, ha chiesto qualcosa per pulire, e le han detto no più volte, le han detto pure “ora pulisci con la lingua, a noi non ce ne frega se tu hai sporcato, ti tin ta ta” e… niente, alla fine non so, qualcuno le ha dato un fazzoletto, probabilmente qualcuna delle ragazze che stava nella cella, e ha pulito con quello. Poi dopo so che l’hanno fatta andare in bagno, ma dopo».

Bolzaneto arriva nella storia italiana dopo la morte di Carlo Giuliani e l’irruzione alla scuola Diaz. Arriva dopo, ma arriva perché, al contrario di altri procedimenti, qualcuno che era lì e ha visto tutto, parla. Agenti e personale medico consentono ai pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati di allargare il campo nel procedimento sulle torture all’interno della caserma. In precedenza, nei 43 avvisi di chiusura indagini, i reati ipotizzati erano soltanto quelli di abuso d’autorità sui detenuti, abuso d’ufficio e falso ideologico; le rivelazioni di chi decise di parlare portano a nuove richieste di rinvio a giudizio. Questa volta sono indirizzate a 47 persone con accuse ben più pesanti: abuso d’ufficio, abuso d’autorità su arrestati, violenza privata, lesioni personali, percosse, ingiurie, minacce e falso ideologico (perché nei verbali si dava conto di avere informato dei loro diritti gli arrestati e che rinunciavano ad avvisare parenti e consolati). Secondo la memoria depositata a marzo del 2005 dai procuratori, nelle stanze della caserma di Bolzaneto fu violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti (ipotesi poi confermata dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2017). Di fronte ai giudici alla fine finiscono in 45: quattordici sono agenti della polizia penitenziaria, poi ci sono dodici carabinieri, quattordici tra agenti e dirigenti della polizia e cinque medici e paramedici, tra i quali Giacomo Toccafondi che delle strutture mediche della caserma era il responsabile. Riconosciuto da molti testimoni, il «medico in divisa», come racconteranno anche persone all’epoca impiegate come personale medico, era accusato anche di «aver effettuato e aver comunque consentito che altri medici effettuassero i controlli e il cosiddetto “triage” e le visite mediche al primo ingresso con modalità non conformi ad umanità e tali da non rispettare la dignità della persona visitata, così sottoponendo le persone ad un trattamento penitenziario, anche sotto il profilo sanitario, inumano e degradante». Una delle vittime ha raccontato in aula che di fronte alla sua mano gonfia e insensibile, il dottore «la strinse ancora più forte». L’infermeria era quasi peggio delle celle: flessioni, insulti, umiliazioni e il dottor Toccafondi a collezionare ricordi, ciocche di capelli ad esempio, o a ricordare, una volta in aula, l’origine napoleonica del «triage».

Le testimonianze delle vittime rendono bene l’idea di impunità presente nella caserma, compreso l’utilizzo di spray al peperoncino nelle celle, e un clima generale che le cronache quotidiane delle ultime settimane ci hanno straordinariamente riconsegnato, riportando alla mente quanto accaduto ormai venti anni fa. Come accaduto con gli altri procedimenti, per i testimoni appartenenti alle forze dell’ordine a Bolzaneto non sarebbe successo niente, in realtà. Molti di loro «dimenticarono» quanto accaduto, altri provarono a minimizzare, altri mentirono a tal punto da passare dall’altra parte: da testimoni a indagati. Eppure dai procedimenti è emerso di tutto: l’obbligo di cantare canzonette fasciste («un due tre via Pinochet»), insulti e minacce nei confronti delle donne presenti nella struttura: alle ragazze all’interno di una cella, secondo il racconto di un testimone, gli agenti urlavano «che le avrebbero dovute stuprare come in Bosnia», oltre a insulti ripetuti: troie, puttane. Le minacce di stupro furono talmente tante che i pm nella loro memoria sottolinearono come questi e altri atteggiamenti «come in ogni caso di tortura» avvennero grazie a «quel meccanismo fatto di omissioni per cui i responsabili non vengono puniti e le vittime terrorizzate hanno paura di denunciare i maltrattamenti subiti». L’accanimento avvenne con chiunque, anche contro un uomo di 52 anni, poliomielitico e con una protesi alla gamba, che nella sua testimonianza ha ricordato i pestaggi, prima e dopo essere stato costretto a stare in piedi al muro per tutta la notte. Crollato a terra, ha raccontato - confermato poi da altri testi - di essere stato di nuovo picchiato, inerme, accovacciato sul pavimento.

Ci sono alcune particolarità, naturalmente, anche nel procedimento di Bolzaneto. Una prima ha a che fare con la presenza di un corpo speciale (ne avevamo già visti alcuni creati ad hoc per il G8 nelle strade di Genova) all’interno della caserma. Si tratta dei Gom, un corpo nato nel 1997 «per fare fronte alle esigenze derivanti dalla gestione dei detenuti appartenenti alla criminalità organizzata, concorrere alla sicurezza delle traduzioni di detenuti ad elevato indice di pericolosità e adottare misure idonee a prevenire e impedire fatti o situazioni pregiudizievoli per l’ordine e la disciplina degli istituti penitenziari». I Gom, anziché rimanere fuori, furono invece protagonisti di quanto accaduto nei corridoi; per mancanza di prove sufficienti però, nessuno dei Gom è finito tra gli imputati. Una seconda particolarità è che in quelle giornate a Bolzaneto passarono persone importanti, ma che a quanto pare non si accorsero di niente: si tratta dell’allora ministro della giustizia Roberto Castelli e del magistrato Alfonso Sabella. Il ministro, ovviamente, non vide nulla, niente. Anni dopo, nel 2015, al Messaggero dirà: «A Bolzaneto arrivai alle tre di notte, a sorpresa. Il massimo che vidi erano alcuni ragazzi tenuti in piedi con la faccia contro il muro. Non c’era sangue né altro. Se quella è tortura che cosa dovrebbero dire i metalmeccanici che stanno in piedi per otto ore?». Più o meno simili furono le dichiarazioni di Sabella (la cui posizione venne archiviata), all’epoca dirigente del Dap, ovvero «coordinatore dell’organizzazione, dell’operatività e del controllo su tutte le attività dell’amministrazione penitenziaria in occasione del G8 in Genova», comprese dunque le due carceri provvisorie del G8, Forte San Giuliano, dove nella giornata del 20 luglio era presente Gianfranco Fini, leader di An e allora vice presidente del Consiglio) e Bolzaneto. Sabella anni dopo accennerà al fatto che non gli fecero vedere nulla: ipotesi sostenuta anche dalla procura nella richiesta di archiviazione, perché secondo i pm gli agenti occultarono quanto stava accadendo di fronte e un superiore.

Ma proprio quell’archiviazione costituisce ancora oggi il tarlo del magistrato che di recente al Domani, ha spiegato che il giudice «mi infama gratuitamente scrivendo che ero responsabile delle violenze per colpa e non per dolo». C’è una verità storica e c’è una verità giudiziaria: non sempre combaciano, specie quando le violenze rendono le vittime quasi incapaci di credere a quello che si è subito e soprattutto completamente incerte circa la possibilità di essere credute. Una vergogna, altro colpo alla dignità, squarciata da testimonianze in grado di consegnare ai traumi patiti una goccia di splendore, di umanità, di verità. La verità di chi c’era, di chi ha visto, di chi ricorda.

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