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Femminismo da ragazzi - Attualità - D

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

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imageFoto scattata durante la Women’s March di Washington.L’uomo che voleva imitare le Femen, le discinte attiviste anti-macho ucraine, compare a Santiago del Cile il 19 ottobre 2106. Giovane, sexy, petto al vento, monopolizza l’attenzione durante la marcia di #NiUnaMenos, la campagna nata in rete contro il femminicidio in Sudamerica. Regge un cartello dove ha scritto “Sono qui mezzo nudo in mezzo al sesso opposto, eppure mi sento protetto, a mio agio. Voglio che si sentano sempre così anche loro”.

Loro sono le donne, ovviamente. Che lo bollano di smania di protagonismo e vetero-paternalismo (ricevere complimenti perché si è protettive è uno stereotipo, no?) o lo fotografano coi telefonini e lo postano sui social. Peccato che così tronchino sul nascere la brillante carriera mediatica di El Hombre del Cartel, com’è stato battezzato: l’ex fidanzata lo riconosce, e rivela al mondo che lui ha picchiato lei e la figlia che hanno avuto. Tre mesi dopo, a Washington, mescolato nella Women’s March che contesta Donald Trump, per fortuna esce allo scoperto un altro tipo di maschio progressista contemporaneo: Sam, papà poco più che teenager, berretto rosa Pussy Hat in testa e rossetto sulle labbra, senza cartello ma con pargolo nel passeggino. Sam le atmosfere protettive si guarda bene dal sottolinearle, perché è consapevole di essere già protetto in partenza. Dal suo sesso, dalla sua pelle bianca, dalla sua nascita in uno dei punti migliori del pianeta, dalla sua istruzione e da uno stipendio che gli consente di crescere un figlio. Ma è lì lo stesso. Il suo piccino deve imparare subito a rispettare le donne e i loro diritti. Perché se le donne li dovessero perdere, quei diritti, sarebbero guai per tutti.

Sam è lì soprattutto per le future generazioni. Sì, sono sempre di più gli uomini - sinceri, narcisisti, etero, gay, trans, cis, bisex, intersex, gender fluid, queer, ricchi, poveri, vip, anonimi, laureati, disoccupati, single, ammogliati, bianchi, neri, gialli, appagati, preoccupati, di mezz’età, Millennial/Zeta – che oggi vogliono partecipare alle battaglie delle donne. E sempre più complessa diventa, di conseguenza, la questione della loro “autocertificazione”: perché se da un lato la Duke University (Carolina del Nord), tra gli atenei più seri degli Usa, ha varato The Duke Men’s Project, corso di studi per teorizzare forme nuove e più sane di identità maschile, dall’altro divampano le polemiche. Prima di tutto sono le definizioni, a far discutere. Ci sono le fautrici & i fautori dei Femministi a tuttotondo (invocati da Laura Boldrini, presidente della Camera), come l’attrice Emma Watson, ambasciatrice della campagna globale delle Nazioni Unite #HeForShe, o gli attivisti del progetto internazionale Male Feminists Europe, per lo più danesi e tedeschi, o il professore e giurista spagnolo Octavio Salazar, “l’hombre feminista, padre queer, constitucionalista heterodoxo, ciudadano rebelde” che interviene sul blog Mujeres del quotidiano El País. Ma c’è anche chi pigia il freno e ammette l’esistenza, tutt’al più, dei Pro-femministi: che, in quanto tali e fino a prova contraria, dovrebbero limitarsi a fiancheggiare e ad aprire la bocca il meno possibile. È l’opinione di Brian Klocke, supermediatico sociologo e saggista, nonché attivista del collettivo Usa Faculty Against Rape, che si batte contro la violenza sessuale nei campus.imageFoto scattata durante la Women’s March di Washington.Attenzione, non sono zuffe solo terminologiche, queste. Il maschio progressista 2.0 va marcato stretto, mettono la pulce nell’orecchio Klocke e parte del femminismo Usa: se gli fai capire troppo bene le opportunità dell’uguaglianza di genere, rischi che poi te lo ritrovi bellamente riposizionato come leader, col risultato di una subordinazione femminile proprio nel movimento che dovrebbe stanarla. «Sì, qualche frizione c’è: allargando anche agli uomini la possibilità di scardinare il potere, le donne potrebbero farsi sottrarre per l’ennesima volta uno spazio pubblico e una centralità. Io stessa entro in crisi quando assisto ai litigi prima delle manifestazioni femministe, alle discussioni se ammettere o no i “cortei misti”. E ricordo bene il fastidio provato alla presentazione di un diario di una donna maltrattata, quando a leggerne dei brani è stato chiamato un attore maschio», confessa Anna Lorenzetti, docente di Analisi di genere e diritto antidiscriminatorio nel Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Bergamo. «Ma ho capito che questo disagio è solo il sintomo del vero problema: il dibattito femminista, soprattutto in Italia, si è lasciato superare dalle troppe frammentazioni. Animate da persone che sono salite alla ribalta nei ’70, con un loro bisogno di specificità che passa attraverso una rappresentazione esclusiva».

Da cui sarebbero espulsi i papà Millennial americani come Sam, per esempio. Arrabbiati pure loro perché magari già vittime precoci di un crescente tipo di discriminazione, quella contro gli “smidollati” che chiedono all’azienda i congedi di paternità. Ecco perché il dibattito più frizzante è in realtà quello innescato dai giovani etero “illuminati” e/o “liquidi” e dagli attivisti del movimento LGBT: i quali, giudicando superati sia i Femministi che i Pro-femministi, residuati bellici di un passato prossimo assai poco fluido e globale, scelgono la militanza di tipo neo intersezionale, come si dice oggi. Che cioè aggiorna la teoria della “intersectionality” messa a punto negli ’80 dalla giurista afroamericana Kimberlé Williams Crenshaw, secondo la quale le violazioni dei diritti sono multiple, e intersecano razza, censo, sesso, identità, handicap, religione... Sì, perché oggi, nei durissimi anni di The Donald e del suo truce Steve Bannon (appena rimosso dal Consiglio di sicurezza nazionale), cui si devono perle di volgarità contro le disoccupate di colore, i transessuali e la libertà procreativa, i nuovi fautori dell’intersezionalismo dicono che le discriminazioni vanno combattute in modo complessivo e condiviso. A partire da quella che le contiene tutte, il capitalistico Gender Pay Gap, che impoverendo le donne, e azzoppandole con il lavoro di cura, rende più ingiusta e debole la società contemporanea in generale.

E così eccoli, in tempi di cortei e marce, “accettati” dalle femministe Millennial della cosiddetta Quarta Onda: «Gli uomini possono partecipare, se vogliono. Purché sappiano ascoltare, stare accanto. Mai un passo avanti. Perché, sia chiaro, noi non abbiamo bisogno di loro. E loro non sono protagonisti, ma alleati. Che tra l’altro è un bellissimo ruolo: traduce l’“Intersectional Ally”, chi “non sa”, chi non vive una discriminazione sulla sua pelle ma la combatte, consapevole di un sistema di valori che si rifà alla gerarchia patriarcale. E il patriarcato, si sa, impone modelli di forza e potere che danneggiano tutte e tutti», spiega Benedetta Pintus, giornalista e fondatrice di Pasionaria.it, webzine e progetto sociale che impegna giovani donne dai 23 ai 38 anni e si occupa di femminismo intersezionale, questioni di genere e pari opportunità. Già. Il che non toglie che quest’alleanza sia vista come il fumo negli occhi dalle femministe radicali, dalle filosofe della differenza e/o dalle pensatrici giudiziosamente sulla difensiva.imageFoto scattata durante la Women’s March di Washington.«Parlare di pro-femministi o di femministi non mi piace, è un modo come un altro per non assumersi delle responsabilità», taglia corto Marco Deriu, 47 anni, sociologo e ricercatore presso il Dipartimento di discipline umanistiche, sociali e delle imprese culturali dell’Università di Parma. Uno che più alleato di così non si può: è cofondatore dell’associazione Maschile Plurale e membro del gruppo Maschi Che Si Immischiano (piccolo movimento spontaneo nato nella città emiliana che, in un pugno d’anni, s’è trovata tra le capitali nazionali del femminicidio). Deriu continua: «La maturazione su una serie di fronti, dalla violenza sulle donne all’omofobia, ci ha fatto fare passi avanti. E ha introdotto la partecipazione maschile nelle nuove trame delle relazioni politiche e sociali: ci tengo a dirlo, non è una “aggiunta” ma l’inizio di un lavoro di scavo, di decostruzione e superamento, che nulla toglie alla centralità del femminismo e delle sue pratiche».

Deriu sa benissimo che tutto questo può suscitare diffidenze. Dice che la sfida è però interessante, perché consente agli uomini di “partecipare allo scambio” offrendo non solo un senso di colpa di genere ma anche l’impegno a far luce sulla loro vita. «I temi del corpo e della sessualità non interessano solo alle donne etero e lesbiche. Ci sono i transessuali, gli omosessuali. E sì, gli eterosessuali e cisessuali, la cui identità di genere coincide con il sesso assegnato alla nascita: «Certo, in Italia i numeri sono piccoli, qui da noi parlare in pubblico di sé e del proprio corpo per un uomo è ancora molto difficile. Ma qualcosa sta cambiando, perché sta cambiando l’esperienza familiare». E non solo quella. Ricorda Deriu: «Il femminismo tornerà al centro dell’agenda politica se sarà capace di interpretare i conflitti del mondo e di dire cose più interessanti sul nuovo capitalismo. Per interrogarsi, magari, sul dramma della tratta e della prostituzione forzata». Obama sarebbe d’accordo. Bill de Blasio, sindaco di New York, pure. E il premier canadese Justin Trudeau. E Amartya Sen, l’economista indiano premio Nobel. Applaudirebbero gli attori Mark Ruffalo, Ryan Gosling e Tom Hiddlestone e il cineasta Michael Moore. E Marc Benioff, invitato al Forum di Davos per raccontare come la sua tech company, la Salesforce di San Francisco, abbia speso 3 milioni di dollari per ridurre il divario retributivo tra maschi e femmine. E Owen Barder, vicepresidente del think tank Center for Global Development, indignato perché ai summit sulle tematiche mondiali intervengono troppi relatori maschi.Si accoderebbe Muhtar Kent, presidente e Ceo della Coca-Cola Company (azienda che ha peraltro varato politiche di assunzioni paritarie), uno che ha fiutato il vento ed è andato al Women’s Forum di Deauville per autoincoronarsi femminista doc. Sì, il fastidioso sospetto di sentirsi stritolate dal purplewashing (la “verniciatina” di femminismo che consente al potere maschile di vendersi e di vendere meglio, proprio strizzando l’occhio all’uguaglianza di genere) c’è.

Ma il nodo della questione è un altro: «Oggi paternalismo e sessismo si muovono con più abilità», riflette Lorenzetti. «Capelli lunghi, tinture bionde, gonne al ginocchio, tacchi alti... Certo, tutto è tornato. Ma condito da una rielaborazione commerciale che va ben oltre il marketing. È quella che fa dire a molti Ceo: io sono femminista, amo lavorare con le donne perché sono più concentrate e organizzate, sanno mediare meglio, sono manager efficaci, materne, comprensive. In quel ricorrente “loro sono più... ” c’è tanta furbizia». Deriu lo sa, ma sgombra il campo: «Lo schema antagonista non funziona, soprattutto con le giovani generazioni: impostare la discussione sulla contrapposizione uomo-donna innesca chiusura mentale nei confronti della storia, voglia di fuga e sensi di colpa». Pintus è d’accordo: «I ventenni di oggi non si riconoscono in modo rigido, sgretolano mascolinità e femminilità. E vivono un momento storico intriso di crisi economica, populismi e fascismi, che li porta a sentirsi uniti e coinvolti contro le discriminazioni». n

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