In Afghanistan la donna ritorna agli Anni 50, ma in Italia si lotta contro #tuttimaschi
La seconda scena della Guerra di Charlie Wilson, l’ultimo film che girò Mike Nichols, è ambientata in un idromassaggio nell’aprile del 1980. Ci sono Tom Hanks, il parlamentare Charlie Wilson, un tizio che vuole convincerlo a fargli avere i finanziamenti per girare «un Dallas ambientato a Washington», e tre mignotte (scusate: belle ragazze). In tv c’è Dan Rather, e Charlie Wilson è abbastanza alieno da chiedere, in un bordello di lusso, d’alzare il volume del tg. «C’è Dan Rather con un turbante» «Sta facendo una cosa dall’India» «È l’Afghanistan».
Oggi Aaron Sorkin, che scrisse la sceneggiatura, verrebbe accusato di maschilismo per aver fatto la mignotta così scema da confondere l’India e l’Afghanistan.
Ma, se sospendiamo per un istante le segnalazioni di virtù, l’ovvia verità è che, se la scena fosse ambientata oggi, quarant’anni dopo, e al posto della mignotta ci fossero un assessore, un cardiochirurgo, uno studioso di matematica, nessuno di loro saprebbe trovare l’Afghanistan sul mappamondo, o mettere in fila i rivolgimenti dall’81 a oggi (a parte quelli più clamorosi: ah, già, i talebani; ah, già, l’undici settembre).
La verità è che dell’Afghanistan non ci importa niente (in formulazione più citazionista: la verità è che l’Afghanistan non ci piace abbastanza).
Sorkin lo sapeva, e infatti alla scena successiva è la segretaria di Wilson a dire «Uzbekistan?» quando lui nomina Kabul, e questo ci dice non che gli uomini sono più svegli ma che Wilson è un ossessivo: nomina Kabul perché è uno che corre a leggersi le agenzie appena battute invece di, com’era normale fare quarant’anni fa, aspettare i giornali del mattino dopo.
La segretaria ha il lusso di non leggere le agenzie, di non sapere dove sia Kabul, di decidere cosa vuole sapere e cosa no, se vuole studiare o no, se vuole fare la mignotta o no: è una donna occidentale.
Molti anni fa, quando i giornali non venivano indicizzati sull’internet, scrissi un articolo su una tizia ammazzata di botte da quello con cui stava: sostenevo ci fossero donne cui piace farsi menare. Ci ripenso ogni tanto, più che altro per dirmi che certo, i miei detrattori sono proprio scarsi: neanche sono capaci di rintracciare la più formidabile fesseria che abbia mai scritto e usarla per sputtanarmi.
Ma in questi giorni ci ho ripensato chiedendomi se il feticcio del multiculturalismo non sia gemello di «le piace farsi menare, chi sono io per oppormi»; non sia lo stesso tic, solo meno impresentabile giacché tipico di gente che si posiziona sempre e solo dalla parte giusta, e quindi sostiene il diritto delle donne a essere fondamentaliste per scelta e non per costrizione, il che è bislacco considerato che le fondamenta d’ogni fondamentalismo consistono nel non lasciar scelta alle donne.
Dice: eh ma come la mettiamo con quelle che si vogliono mettere il velo anche quando vivono libere in occidente. Of course ci saranno donne cui piace non poter uscire senza che un maschio le accompagni, but maybe quelle donne vanno salvate da sé stesse.
Nel 1980, quarant’anni fa, l’Italia somigliava così poco all’idromassaggio di Charlie Wilson e così tanto all’Afghanistan, che c’era ancora il matrimonio riparatore. Fu abolito l’anno dopo, quindici anni dopo la vicenda di Franca Viola.
Ogni tanto mi chiedo se oggi si potrebbe girare, due anni dopo Franca Viola e col matrimonio riparatore in vigore per tredici anni ancora, uno dei miei film preferiti, La ragazza con la pistola.
Carlo Giuffré dà mandato di rapire una ragazza chiatta che gli piace, ma si sbagliano e gli rapiscono la cugina secca, Monica Vitti. Che è innamorata di lui («tua sono, e con me ti porterò, fino alla tomba») e a quel punto pretende il matrimonio riparatore, ma lui non ne vuole sapere.
È una commedia, e oggi ci indignerebbe: le ragazze sono costrette a sposare i loro stupratori e voi ne ridete. Oggi non c’indigneremmo con la legge, o almeno non quanto con la commedia. Oggi –- in Italia, in occidente, nel paese in cui ci balocchiamo col considerare il fondamentalismo una scelta – abbiamo risolto così tanti problemi pratici che ci concediamo il lusso di crearne di immaginari. Of course si può essere suscettibili allo sberleffo, but maybe ti resta più tempo libero per farlo se i tuoi diritti fondamentali sono al riparo dai fondamentalismi.
Quei diritti che dai così tanto per scontati da esser convinta le donne li abbiano sempre avuti, da essere insofferente nei confronti di donne che sono nate quando le donne italiane non potevano votare, quando si abortiva con un ferro da calza, quando tutto quel che la società si aspettava da noi era che ci trovassimo un marito. Ogni tanto sento chiedere da trentenni convinte d’essere informate cos’abbiano fatto mai, le novantenni, per i diritti delle donne, e penso che ci meriteremmo un po’ di talebani.
Ci meriteremmo di ricordare come funziona in quei luoghi del mondo che ci prendiamo il lusso di considerare folkloristici, anche se siamo troppo colti per usare l’espressione “folkloristico”, ma quello è: il lusso di pensare che carucci questi sud del mondo coi turbanti, che riposante questa cosa che se sei donna stai a casa ad aspettare il marito, che mancanza di stress questi matrimoni combinati, che scelta interessante il velo.
Noialtri che straparliamo di vessazioni patriarcali se in un programma televisivo parlano deputati e giornalisti maschi, non essendoci mai venuto in mente che ci sono posti in cui le femmine non diventano proprio deputate e giornaliste.
Noialtri che cancellettiamo #AllMenPanel se a un dibattito non ci sono signore perché l’organizzazione non ne ha trovata nessuna disponibile, non perché viviamo in una società in cui non è previsto che le signore parlino in pubblico.
Noialtre così prive di discriminazioni specifiche – è se sei donna che non puoi comparire in pubblico, andare a scuola, fare quel che ti pare – da inventarcene: immaginiamo un mondo in cui sono sempre gli uomini a star seduti scomposti e interrompere chi parla, mai noi.
Noialtre del femminismo da cortile.
In una puntata di vent’anni fa di The West Wing, la serie televisiva scritta anch’essa, come Charlie Wilson, da Aaron Sorkin, la portavoce della Casa Bianca dà in escandescenze per il rinnovo degli accordi col Qumar, una nazione di fantasia che Sorkin usava per dire tutte le cose che voleva dire sui fondamentalismi senza che a nessuno di nessuna nazione realmente esistente venisse voglia di farsi esplodere in Times Square.
In Qumar le donne venivano trattate come nell’Afghanistan dei talebani, per capirci. CJ, la portavoce, discuteva con Nancy, la consigliera per la sicurezza nazionale, che le diceva di darsi una calmata, che avevano bisogno della base militare in Qumar per fare rifornimento ai voli. Nancy, oltre che donna, era nera, e quando chiedeva perché CJ fosse così agitata quella rispondeva ricordando a lei e a noi quant’è miserabile che ci freghi solo delle cose che ci riguardano: «L’apartheid era una grigliata agli Hamptons, in confronto a come trattano le donne in Qumar, e se quindici anni fa avessimo venduto armi al Sudafrica tu avresti dato fuoco all’edificio: meno male che non abbiamo mai dovuto fare rifornimento a Johannesburg».
Non c’importa niente delle donne afghane, se non per portarci la mano al giro di perle e sospirare «poverine», perché esse sono lontane da noi almeno quanto la Julia Roberts di Charlie Wilson, la miliardaria assai anticomunista che è responsabile dei quarant’anni successivi, avendo ingiunto a un deputato di far sul serio contro i russi in Afghanistan; l’unica che sapesse davvero cosa stesse succedendo lì, e non perché terzomondista ma perché attenta agli equilibri del mondo, che sono sempre economici.
Le donne senza diritti e quelle con troppo potere non sono il nostro specchio, quindi perché interessarcene? È tanto meglio stare qui, e indignarci perché in quel talk show non hanno invitato nessuna delle nostre amiche. Quel talk show in cui si parlava del nostro cortile, perché l’Afghanistan mica fa share.