Come stanno le donne in Afghanistan, la testimonianza
Diciotto milioni di afghani dipendono dall’assistenza umanitaria, aiuto per il momento bloccato in discussioni tra Occidente e Talebani. Intanto, il paese sprofonda nella miseria ed è “a rischio imminente di carestia” per l’ONU. Ma a due mesi dalla caduta di Kabul cosa ne è delle sorti delle donne? A raccontare uno spaccato di vita afghana è Marta de Franciscis, avvocata basata a Parigi dello studio legale Brown Rudnick. La specialità di Marta è il diritto d’affari, solitamente la counsel dello studio americano si occupa di bancarotta e di corporate restructuring di grandi imprese. Ma quando, dopo l’annuncio del ritiro delle truppe di Biden, le è arrivata un’e-mail da parte di Meredith Joseph, direttrice del dipartimento Pro Bono, che chiedeva chi volesse aiutare per la questione afghana, non ha esitato. Il protocollo è unico: la sede principale, a Boston, si occupa di richiedere l’humanitarian parole, una specie di piccolo graal che permette ai rifugiati di soggiornare temporaneamente negli Stati Uniti. Una formalità lenta e burocratica di non facile accesso, per la quale è sempre meglio avere un aiuto legale, “e infatti ci hanno fatto fare una formazione in immigration law”, specifica subito l’avvocata. E vuole raccontare, per testimoniare, ma senza dare troppi dettagli perché metterebbe le persone, “i suoi clienti”, in pericolo. Al “bisogna rimanere generici?”, il “sì”, categorico, arriva prima ancora che sia terminata la domanda. Perché i dossier che trattano riguardano chi è rimasto in Afghanistan e la richiesta dell’humanitarian parole è specificamente rivolta a chi rischia di perdere i suoi diritti di essere umano. E “in questo momento essere donna in Afganistan”, sottolinea Marta “è considerata una situazione pericolosa”. Un’affermazione che implica una realtà non certo rassicurante, perché i diritti delle donne sono considerati particolarmente minacciati dal servizio d’immigrazione statunitense. D’altronde, il lavoro probono dello studio americano non voleva concentrarsi sul diritto delle donne in modo specifico, ma aiutare il popolo afgano. Tuttavia, “i diritti delle donne e ragazze afghane sono stati il cuore di molti dei nostri casi, in particolare quello che riguarda l’accesso all’educazione e alle cure mediche – riassume Meredith Joseph, direttrice del Pro Bono di Brown Rudnik – rappresentiamo individui e famiglie che sono a rischio per avere promosso pubblicamente l’educazione per le donne; e alcuni delle nostre clienti sono un bersaglio perché sono dottoresse o professioniste. Tra i casi difesi “alcune famiglie sono state obbligate di lasciare le loro case nelle comunità rurali di montagna e nascondersi nelle aeree urbane per passare inosservate. Le donne e le ragazze rimangono dentro casa mentre un membro della famiglia, un uomo, esce solamente per rifornirsi di beni essenziali. Le ragazze hanno smesso di andare a scuola o di lavorare, perdendo così anche la loro fonte di guadagno, e sono totalmente isolate dalla comunità”, conclude Meredith.
Marta fa eco della situazione con una stessa austerità, alternando termini legali a parole pratiche “alcune delle nostre candidate [al parole] hanno un’educazione superiore o sono sostenitrici del diritto delle donne mentre altre sono semplicemente ragazze che aspiravano a un futuro diverso. E adesso temono per la loro incolumità”. Da Parigi, la famiglia di cui si occupa con il suo team, che fa parte del “suo dossier”, comprende una donna adulta, tre adolescenti e una bimba. Per loro, la richiesta dell’humanitarian parole “è stata chiaramente legata all’essere donna” racconta. Ma nel nucleo famigliare, c’erano anche degli uomini. E per quel che li riguarda, “la questione di genere e i diritti delle donne sono stati altrettanto pertinenti. Perché gli uomini stessi possono essere considerati in pericolo se etichettati come difensori dei diritti delle donne, particolarmente coloro che hanno sostenuto il diritto all’educazione femminile e possono anche essere giudicati per il modo in cui hanno educato le loro figlie”. Per il caso dello studio di Parigi, le donne della famiglia non andavano a scuola, “si sono fermate alla prima media”, come spesso accade quando si appartiene ad una classe sociale meno agiata. “L’accesso all’educazione non è un argomento che avrei potuto mettere in avanti [per il parole] - specifica l’avvocata – ma quello che ritorna sempre come argomento è la paura. La paura mentre si vive chiuse in casa, mentre solo il padre esce di tanto in tanto per fare le compere essenziali. Per me si va oltre una problematica legata all’educazione ma si parla proprio di integrità fisica. Ma per tutti”. Permettere di ottenere l’humanitarian parole è sicuramente un inizio ma non è l’ultimo traguardo. “Poi ci devono arrivà”, termina Marta, permettendosi anche un’elisione dialettale ma che enfatizza bene che questo è solo l’inizio di un lungo viaggio, difficile. Chi ottiene questo permesso deve poi arrivare sul suolo statunitense con i propri mezzi, trovare un volo, spesso con partenza da un paese vicino, pagarlo. E vivere poi, altrove.
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