QUALE CULTURA PER RIDISEGNARE L'EUROPA
Gli economisti dell'austerità fanno coincidere cultura, lungimiranza ed etica con rigore, mercato e vincoli. Ma è la stessa esperienza in corso che boccia una tale visione
Ho detto che, ove si riuscisse ad arrestare l'attuale deriva delle strategie europee, occorrerebbe poi dotarsi di più strumenti culturali, di più lungimiranza, di più etica. Gli economisti dell'austerità fanno coincidere cultura, lungimiranza ed etica con rigore, mercato e vincoli. A mio avviso è la stessa esperienza in corso che boccia una tale visione. Occorre invece tornare agli insegnamenti suggeriti dall'esperienza storica e da una buona parte degli economisti e dei politici della prima parte del secolo scorso, aggiornando il quadro problematico per raccordarlo meglio alle trasformazioni intervenute da allora.
Il lungo periodo di grande espansione ed evoluzione che è durato dalla fine del 1800 agli anni 1970, sia pure con alti e bassi, con momenti di crisi evidenti come quelli degli anni 1930, con accelerazioni dai risvolti crudeli quali quelle dovute agli sforzi bellici, ha molto da insegnarci. Il processo espansivo ha visto sempre come protagonisti complementari lo stato, le imprese, i sindacati. Le egemonie sono state di volta in volta diverse. Una buona parte di tali esperienze è stata innescata dalle grandi imprese innovative, quelle che maggiormente hanno raccolto i frutti delle grandi invenzioni maturate in sede scientifica a partire dalla fine dell' 800, spesso contribuendo alla loro maturazione e sempre al loro successo. Ma il mercato ha più volti, sicché non bisogna dimenticare il ruolo aggressivo e molto poco innovativo interpretato dalle grandi multinazionali (a partire da quelle del petrolio), le azioni miranti ad ottenere protezione dalla concorrenza potenziale, il freno esplicito a processi innovativi, la manipolazione dei media e della politica, ecc. Altri cambiamenti importanti sono legati all’iniziativa pubblica (penso alla Prussia di Bismark e alle azioni rooseveltiane, ma anche all’esperienza delle imprese pubbliche italiane, inglesi, francesi) , altri ancora alle spinte egualitarie perseguite dai sindacati (pensa all’Italia dei primi anni 1960).
Le imprese innovative comunque, nel corso dei primi decenni di quel periodo, hanno inventato e perseguito nuove strategie di relazioni industriali, volte a cooptare i lavoratori agli interessi aziendali attraverso contratti di lavoro di lunga durata e percorsi di carriera interni alle imprese stesse. Questo è accaduto mentre la maggior parte delle altre imprese continuavano ad usare le strategie ottocentesche, molto aggressive sia nei confronti dei lavoratori che delle altre imprese, tagliando costi e prezzi, sfruttando i lavoratori allo spasimo, negando loro diritti. Nel corso della prima metà del Novecento, tuttavia, il maggior successo delle imprese innovative finì per spingere quelle più tradizionali ad imitarle. Il risultato sistemico, statisticamente visibile fin dai primi anni 1960, fu quello di rendere i livelli di occupazione più stabili delle oscillazioni cicliche del prodotto. La maggiore stabilità della maggior parte dei lavoratori e la garanzia per essi di una carriera ascendente all’interno delle imprese erano considerati, dalle imprese innovative, un fattore di vantaggio competitivo e dai lavoratori e dalle loro organizzazioni un fattore di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Il vantaggio competitivo era ulteriormente rafforzato ove la strategia dei mercati interni del lavoro veniva abbinata ad altre azioni, quali le politiche di attrazione e fidelizzazione della clientela, l’innovazione, la customer care, strategie riguardate tutte come migliori rispetto alle precedenti. (Sergio Bruno) .