DONNE IN CERCA DI DIRITTI IN ARABIA SAUDITA E POLONIA
Arabia Saudita. Laddove la condizione delle donne è tra le più opprimenti al mondo e la cosiddetta “male guardianship” (sorveglianza maschile) è legge, in almeno 14mila hanno firmato una petizione che chiede la fine della tutela maschile in base alla quale la vita di una donna è controllata, dalla nascita fino alla morte, da un uomo. Dal contrarre matrimonio a viaggiare o circolare da sole, dal guidare un’auto all’ottenere un lavoro o all’aprire un conto in banca, il sistema di controllo, realizzato dalla monarchia wahabita sulla base di una rigida interpretazione dell’islam sunnita, pone infatti ciascuna donna sotto la stretta sorveglianza degli uomini della propria famiglia. Poco importa se questa venga esercitata dal padre, dal marito o dal figlio: l’importante è che sia un individuo di genere maschile.
A partire dallo scorso luglio le saltuarie iniziative di disubbidienza, ad esempio contro il divieto per le donne di guidare l’auto divulgando con foto e video la violazione commessa, hanno ceduto il passo a un movimento di protesta ben più ampio promosso anche grazie alla rete e ai social network, ampiamente in voga nel Paese e di cui è consentito l’uso. Numerosissimi sono i consensi ricevuti dall’hashtag #IAmMyOwnGuardian (ossia, “sono la guardiana di me stessa”) o anche da #StopEnslavingSaudiWoman (“fermate la schiavitù delle donne”), nel giro di alcune settimane diventati virali con il rilancio di commenti, video e articoli in cui si chiede un profondo cambiamento sociale (e politico). Agli strumenti offerti da Twitter e Instagram, che hanno consentito una diffusione senza precedenti della campagna, si sono uniti il sostegno mediatico ricevuto da parte di alcune ong internazionali (in primis con i report diffusi in luglio da Human Rights Watch) e il “più classico” atto di invio di telegrammi di condivisione della protesta indirizzati al re saudita, secondo alcune fonti ben 2500, che hanno subissato l’amministrazione statale.
La petizione non ha ancora ricevuto risposta ufficiale da parte del governo ma non ha mancato di sollevare l’indignazione di un gruppo minoritario di donne saudite che si sono opposte alla mobilitazione, ritenendo il sistema di tutela maschile uno strumento a protezione della donna, al massimo da riformare; anch’esse hanno colpito a suon di hashtag con #TheGuardianshipIsForHerNotAgainstHer (la tutela è a loro favore, non contro di loro). La possibilità per le donne di candidarsi e di eleggere le proprie rappresentanti (concretizzato alle elezioni municipali del 2015) e di soggiornare negli alberghi senza una lettera del coniuge (così da agevolare gli spostamenti per lavoro), unita alla nomina di una donna a vice ministro, all’apertura di una prima università mista e all’eliminazione dei commessi maschi nei negozi di intimo femminile e nelle profumerie sono decisioni adottate negli ultimi anni di regno da re Abdullah bin Abdul Aziz. Il fratellastro, re Salman, succeduto alla sua morte nel gennaio 2015, non ha ancora adottato decisioni volte a rafforzare questo trend, seppur di limitata rilevanza, e a iniziare a garantire effettivamente i più fondamentali diritti alle donne del Paese.
Polonia. In 6 milioni sono scese in piazza lunedì 3 ottobre. Sciopero nazionale delle donne che protestano contro una proposta di legge per restringere il diritto all’aborto. Nell’ennesima proposta di legge all’esame del Parlamento, l’interruzione di gravidanza sarebbe possibile solo se la vita della madre è gravemente a rischio; nessun’altra deroga alla legge anche per le vittime di stupro o incesto. Inoltre sarebbero previste severe sanzioni tanto per le donne che ricorreranno clandestinamente all’aborto tanto per i medici che praticheranno l’intervento: ben 5 anni di carcere contro i 2 previsti attualmente. L’hanno chiamata “Protesta Nera” (#CzarnyProtest) perché le donne hanno occupato gli spazi pubblici di tutte le città polacche indossando indumenti neri, ad evidenziare la loro contrarietà, il lutto, dinanzi a questa bigotta azione politica. “Donne du du du… in cerca di guai” cantava Zucchero
Che il grido di “Decidiamo noi, non lo Stato” sia giunto alla premier Beata Szydlo, ampiamente supportata dalla conservatrice Chiesa cattolica polacca, è innegabile. È però in forte dubbio che questo determini un dietrofront su una linea politica “a favore della cosiddetta ‘famiglia tradizionale’” che fra l’altro è valsa alla destra radicale di Diritto e Giustizia (PiS) il 38% dei voti alle elezioni legislative dell’ottobre di un anno fa. La legge che attualmente regola l’aborto in Polonia è stata adottata nel 1993 e risulta una delle più restrittive d’Europa consentendo l’aborto fino alla venticinquesima settimana ma solo in caso di pericolo di vita per la madre, gravissima malformazione del feto e stupro. Sarebbero tra le 100mila e le 200mila le donne polacche che ogni anno sono costrette a ricorrere all’aborto clandestino o ad andare all’estero; una piaga con evidenti traumi e rischi per la vita delle donne. Se la nuova legge dovesse passare, la Polonia diventerebbe uno dei pochi Stati al mondo in cui l’aborto è illegale: una possibilità che molte donne (ma anche molti uomini) cercano di scongiurare per garantire la libertà di scelta.
Donne che oggi protestano e reclamano diritti e libertà in Arabia Saudita e Polonia. Ma, purtroppo, non solo in questi due Stati le condizioni delle donne richiedono attenzione, norme ed educazione che consentano di raggiungere una effettiva parità con la restante metà del genere umano.
Miriam Rossi (Unimondo)
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