Donna Ferrato a Cortona con le foto shock delle donne americane
È a Cortona On The Move l'artista e attivista Donna Ferrato: dopo decenni di critica sociale attraverso le foto shock è un faro per capire il nuovo machismo yankee.
di Riccardo Romani - 26 Settembre 2017 - 10:05
Possiamo passare i pomeriggi discutendo di quanto sia tragico l’avvento di Donald Trump alla Presidenza degli Stati Uniti, ma forse sarebbe meglio smetterla una buona volta di prendersela con il diretto interessato per cercare di capire come siamo arrivati a questo punto. La prima cosa che mi viene in mente è che - contrariamente a quanto suggerisce la logica - il 53% delle donne americane bianche lo ha votato. Sì proprio così, hanno preferito l’uomo che, se non fosse la propria figlia, si porterebbe a cena Ivanka (e qui mi fermo). Hanno dato fiducia al candidato che considera palpeggiare un bel lato B uno sport ricreativo di cui andare fieri. Il cinquantatré per cento.
Forse un aiuto alla comprensione di tutto questo può arrivare dalla rassegna Cortona On The Move, dove, fino al 1 ottobre, si può vedere il lavoro di Donna Ferrato, poderosa fotografa, attivista e soprattutto americana. Una che non ha mai ambito a una carriera diplomatica. «I don’t give a fuck about that 53% of women». Insomma, il suo interesse per le supporters di Donald è molto contenuto. L’interesse per le donne più in generale è invece lampante e contagioso in ciascuno degli scatti che contraddistinguono 40 anni di carriera formidabile. Sono donne sanguigne, struggenti, autentiche. Mai una foto banale, mai un’immagine che non ti rimescoli lo stomaco. Quando a inizio degli anni 90 se ne uscì con il libro Living with the enemy, fu come tirare un montante al fegato all’America maschilista e conservatrice. Il suo racconto sugli effetti delle violenze domestiche rimane un capolavoro sociologico, prima ancora che un necessario documento fotografico. Ma chi poteva immaginare, venti anni dopo, un presidente che, oltre a opporsi alla rimozione dei simboli della schiavitù, ha tolto di mezzo tutte le donne presenti alla Casa Bianca? «Non voglio neppure parlare di chi lo ha votato» attacca Donna Ferrato, «la sola idea che ci siano madri e giovani che sostengono Trump è raccapricciante. Rappresentano il concetto secondo cui il maschio deve essere assecondato in tutti i suoi bisogni. Che va aiutato, anche quando gioca sporco. Sono il medioevo. Quelle femmine sono uno dei motivi del degrado in cui milioni di americane sono costrette a vivere. Sono complici di un fenomeno che è in moto da parecchi anni. Lei non può immaginare quanti ospedali per ragazze ho visto chiudere, quanti programmi statali di orientamento per adolescenti sono stati cancellati senza che nessuno dicesse niente. Temo sia in crescita il numero di donne, spesso giovani, convinte che un compagno che ti rifila un ceffone se non hai preparato la cena in fondo non abbia tutti i torti. Mi terrorizza l’indifferenza in cui questo paese è scivolato. Abbiamo bisogno di più donne che si ribellino, leader che assieme trovino la forza di denunciare e si oppongano a quel 53% ributtante».
Donna Ferrato in un ritratto recente di Chiara Pansini.
Dove sono queste donne? E dov’erano il novembre scorso? La vittoria di Trump non mi ha sorpreso, scioccata sì, ma forse un po’ me l’aspettavo. Insomma, ho capito che poteva succedere. Le donne ci sono, ma così divise tra loro che alla fine i conservatori ne hanno approfittato. Escluse le bianche succubi di Trump, in America ci sono le afroamericane che si sono schierate con Hillary. Poi ci sono le native americane che se ne sono infischiate del voto perché hanno ascoltato da sempre una serie incredibile di fandonie che oggi non credono più a nessuno. Ci sono poi le ispaniche che a votare ci vanno poco e poi ci sono le dirty girls, la categoria di cui faccio parte. Parliamo delle radicali, le inossidabili dell’estrema sinistra, le lesbiche e tutte le femmine marginalizzate da ambo gli schieramenti per ragioni svariate. Le dirty girls da sole possono fare ben poco, la maggioranza di loro neppure va al seggio. L’impegno mio personale sarà di provare a creare un fronte compatto, un movimento serio che possa accomunare il bisogno delle donne americane. Trump è una sciagura, ma non è il male assoluto. Se come possibile dovessero eliminarlo attraverso l’impeachment, ci ritroveremmo con Mike Pence, il suo vice, che credetemi, è uno dei conservatori più bigotti e retrogradi di questo paese. Con lui alla Casa Bianca, una donna che volesse abortire, che ne avesse anche solo l’intenzione, rischierebbe il carcere. È il momento di reagire prima che sia troppo tardi. Sento che dentro di me si sta risvegliando un guerriero. Non ho bisogno che la gente sia d’accordo con quello che penso, ho bisogno di andare dritta per la mia strada. Voglio cominciare a occuparmi delle giovani fotografe, quelle che vanno in giro immaginando di vincere chissà quale premio, più preoccupate dalle mostre e dai critici d’arte che non dalla sostanza del loro lavoro. Ho bisogno di dare loro una bella sveglia.
«Improvvisamente, Bengt colpisce Elisabeth, Saddle River, New Jersey, 1982»: in mostra a Cortona on The Move
Qual è la sostanza del lavoro di un fotografo nell’anno 2017? La fiction è il nemico numero uno, intesa come finzione ma anche come manipolazione. Siamo circondati da prodotti ritoccati al punto che la realtà è una costante versione verosimile della realtà autentica. Le conseguenze sono di fronte a tutti. Il presidente che abbiamo era una scelta talmente assurda, da non sembrare possibile. Invece era tutto vero. Adesso c’è bisogno di un po’ di ragazze che abbiano voglia di mettersi in gioco per lavorare sulla realtà. Ma non parlo della realtà di qualche paese esotico da cui tornare con un grande reportage. Non c’è bisogno di andare in Medio Oriente o in Africa per trovare facce e racconti sconvolgenti. Basta fare un giro nelle grandi città americane, mi riferisco al coraggio che ci vuole nell’esporre la povertà e la tragedia umana che ci vive accanto, senza che nessuno ti tiri bombe in testa. A cinquanta metri dai nostri shopping center. Ciò di cui parlo è la fotografia vera, la passione che ti brucia dentro. La missione che ti porta a vivere col tuo soggetto, a imparare ogni cosa del protagonista dei tuoi scatti. È una disciplina che non ammette compromessi, solo dedizione totale, un approccio alla Josef Koudelka. Si lavora da soli, senza garanzie.
Le protagoniste delle sue foto sono sempre figlie di questo processo? Dicono che le protagoniste delle mie foto siano potenti, la ragione è che gli scatti derivano da un lavoro lungo e faticoso. Sono come un topo che s’intrufola nelle vite delle mie protagoniste giorno per giorno. Che si conquista la loro fiducia. Si comincia con l’annusarsi a vicenda, si seguono i propri istinti animali finché si crea una zona di agio reciproco. Sono una lupa solitaria affamata di sentimenti e di emozioni. Divento vulnerabile al cospetto dei miei soggetti, voglio essere amata da loro, come io sono disposta ad amarli. Se torniamo a raccontare storie vere, se la smettiamo di essere passivi e prendiamo in mano i nostri destini, allora esiste una possibilità. Niente photoshop, niente manipolazioni però.
New York, 1996: ragazze manifestano per i propri diritti in occasione della Dyke March, lungo la Fifth Avenue
L’avversaria di Trump era una donna. Cos’è accaduto? Conosco Hillary Clinton dagli anni 90. Posso dire che come presidente sarebbe stata di sicuro migliore di Trump, ma ciò non la rendeva una buona candidata. D’accordo, non è neppure paragonabile a quel buffone, ma era una scelta fallimentare sin dall’inizio. Con lei al potere, prima come first lady e poi come senatrice, l’America ha conosciuto lo sprofondo per quel che riguarda i diritti delle donne. Negli ultimi dieci anni i gruppi religiosi hanno avuto il sopravvento erodendo sistematicamente le possibilità di scelta delle donne americane. Ci hanno spinto indietro di mezzo secolo. Hillary lo sa bene. L’ho incontrata nel 1992, ho dovuto pagare 4mila dollari per poterle parlare direttamente. Pensavo che avrebbe potuto aiutarci. Le ho presentato il mio lavoro sulle violenze domestiche, oltre alla leader del movimento che chiedeva una legge a tutela delle donne abusate. Vuol sapere cosa rispose? Ecco, mi disse che da avvocato aveva difeso decine di vittime di abusi domestici, ma che spesso lo aveva fatto con riluttanza perché poi scopriva che in grande percentuale quelle donne tornavano sotto lo stesso tetto del loro aggressore. Rimasi in silenzio, esterrefatta. Poi il colpo di grazia quando disse che sono le donne le prime a dover fare qualcosa per aiutare se stesse. E quando le feci notare che mancava persino una normativa di affido per i bambini orfani di madri uccise dai loro aguzzini, lei non rispose. Il tempo era esaurito. Come detto, non può essere Hillary a rappresentare le donne americane. Non può rappresentare le donne punto.
Un autoritratto durante un'orgia, Las Vegas, 1996.
Da dove si comincia la ricerca di una solida alternativa? In California ci sono molte donne ricche di coraggio e personalità. Kamala Harris è un’eccellente senatrice che sa esattamente come parlare alle donne, come mobilitarle. Ma è solo un esempio. Ognuno deve fare la sua parte. La mia prossima sfida è mescolarmi alle migliaia di donne senza tetto di questo paese, specie nella West Coast. Devo vivere come loro, respirare la loro disperazione, conoscerle, studiarle e farmi studiare. Devo essere nuda per poterle raccontare senza filtri. Il problema delle donne homeless è un fenomeno enorme di cui nessuno parla. Lo renderò visibile in un modo da mettere a disagio chi osserva. È ora di piantarla con le storie che non irritino il palato del lettore. Si finisce con spingere lo sguardo della gente dalla parte sbagliata. È come la storia dei migranti, che sono il male assoluto secondo la cultura conservatrice. Ma nessuno parla del fatto che molti di loro sono migranti per i pasticci che abbiamo fatto a casa loro. Nessuno confessa che l’America senza immigrati scomparirebbe dalla terra. È ora di rettificare un po’ di leggende metropolitane. È ora di mettersi al lavoro sul serio.
photo courtesy Cortona on The Move / Donna Ferrato
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