La madre di tutte le partite
L’importanza del calcio nelle relazioni tra Iran e Stati Uniti d’America.
Simon Kuper ha scritto che il calcio “è un gioco, ma anche un fenomeno sociale, perché quando miliardi di persone si preoccupano di un gioco esso cessa di essere solo un gioco”. La storia ci ha mostrato come durante il secolo scorso il calcio, accanto ad altri sport, si sia trasformato in un interlocutore diplomatico o comunque sia stato utilizzato come uno strumento politico propagandistico dal governo di turno. I primi esempi risalgono ai tempi di Mussolini ed Hitler, i quali rispettivamente fecero ospitare le due più importanti manifestazioni sportive: il Mondiale di calcio nel 1934 e le Olimpiadi del 1936. Successivamente, un perfetto caso di come lo sport sia riuscito ad inserirsi nel mondo politico e tirarne fuori il meglio fu la cosiddetta “diplomazia del ping pong”, che permise il disgelo nelle relazioni tra USA e Cina. Il 2017 infine, con il caso Neymar e la mancata qualificazione della nazionale italiana ai Mondiali di Russia, ci ha mostrato come il calcio venga utilizzato ancora oggi come strumento diplomatico. Tra le tante conseguenze positive che questo fenomeno sociale è stato capace di apportare durante la sua storia, il miracolo che riuscì a compiere nell’ambito delle relazioni internazionali risale al mondiale francese del 1998, e vide come protagonisti Iran e Stati Uniti d’America.
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Rivoluzione ed involuzione
1 febbraio 1979: dopo 15 anni di esilio Ruhollah Khomeini ritorna in Iran. Non è un rientro normale, ma si tratta del secondo step fondamentale per l’inizio della rivoluzione che sta per cambiare radicalmente il volto del Paese. Il primo era avvenuto due settimane prima, quando in seguito a scioperi, proteste e morti, lo Shah Reza Pahlavi si vide costretto ad abbandonare il Paese. Un’era, la sua, che verrà ricordata per la volontà di portare avanti il progetto di modernizzazione del padre con la “rivoluzione bianca”, un tentativo di fare dell’Iran un Paese più occidentale possibile, con maggiori diritti soprattutto per le donne. Una modernizzazione che veniva ritenuta forzata da gran parte della popolazione, in quanto ostile al comune sentire e, secondo molti, alla stessa dottrina sciita della religione islamica. Il ricordo dello Shah sarà per sempre macchiato dal fatto di essere stato “l’uomo degli USA”, oltre che dai gravi errori in materia di politica economica; la forte corruzione che caratterizzò l’apparato burocratico iraniano, accompagnata dal crescendo della sua autorità nel corso degli anni, furono le cause che portarono infine alla sua destituzione.
Una rivoluzione, quella che avviene tra il 1978-79, spesso definita solamente come islamica, ma che fu anzitutto popolare. Nonostante la figura principale sarà sempre considerata quella dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini, già anni prima del suo ritorno in patria alcuni intellettuali e diversi movimenti avevano intrapreso le proteste contro la monarchia Pahlavi. Lo Shah, con il passare del tempo, si rese conto della leggerezza con la quale aveva considerato l’opposizione interna, e non fu più in grado neanche di incassare l’appoggio della superpotenza mondiale americana. E così mentre il potere passava nelle mani della figura più amata del popolo, i rapporti con Washington si interrompevano definitivamente. L’evento più emblematico di quel periodo fu sicuramente la presa dell’Ambasciata statunitense a Teheran, ancora oggi nota come covo delle spie. Operazione portata avanti da un gruppo di studenti, che presero 55 cittadini americani in ostaggio e trattennero 52 di loro per 444 giorni. Un azione appoggiata da Khomeini come segnale nei confronti degli Stati uniti, definiti “Satana”, e un evento cruciale per le relazioni future tra i due Stati (oltre che un ricordo ancora oggi difficile da cancellare).
A parlarne anche il film premio Oscar Argo. Pellicola che narra la storia dei sei cittadini americani, riusciti a sfuggire alla presa dell’ambasciata statunitense e rifugiatisi in quella canadese. Solo un’operazione sotto copertura permise loro di lasciare il Paese senza problemi. Giorni talmente colmi di significato da rimanere scolpiti nella memoria dell’Iran, durante i quali ci fu a Teheran anche un pezzo d’Italia: parliamo di Oriana Fallaci, la prima donna ad intervistare l’Ayatollah, giunta in Iran per mettere in discussione la rivoluzione e i costumi islamici. Un confronto passato alla storia, nel quale si scontrarono due visioni del mondo radicalmente inconciliabili, fino ad arrivare ad un congedo risentito e seccato. Da un lato l’apologia dei diritti e delle libertà individuali, un occidentalismo estremo al limite dello “scontro di civiltà”, che non a caso ha dato origine al termine fallacismo; dall’altro “l’Islam che tutto comprende”. Per l’incontro fra l’altro, la giornalista dovette addirittura contrarre un matrimonio temporaneo sciita con un uomo del posto – per volere delle regole previste dalla religione islamica – a causa di un imprevisto. Nella chiacchierata con la massima figura religiosa, la Fallaci non si fece problemi a togliersi il Chador (il tradizionale “velo” musulmano), definendolo “uno stupido cencio da medio-evo”. Un gesto clamoroso, ma soprattutto delle parole pericolosissime.
“Il popolo si è battuto per l’Islam. E l’Islam significa tutto: anche ciò che nel suo mondo viene definito libertà, democrazia. Sì, l’Islam contiene tutto. L’Islam ingloba tutto. L’Islam è tutto”. (Ruhollah Khomeini)
Un salto nel passato che è assolutamente necessario per comprendere come arrivarono Stati Uniti e Iran a quella che venne definita la madre di tutte le partite (ovvero nel peggior modo possibile). Prima che per i persiani si aprissero le porte dei mondiali francesi, questi dovettero giocarsi lo spareggio contro l’Australia. Anche in questo caso non la più facile delle situazioni. I due Paesi non si riconoscono e gli australiani trascorrono il loro ritiro a Dubai. La partita si gioca allo stadio Azadi, libertà in lingua farsi. Finisce uno a uno. La settimana successiva a Melbourne la partita decisiva. Per incitare i propri beniamini lo stadio è tutto esaurito – scena non usuale per una Nazione dalla scarsa tradizione calcistica come l’Australia – e i padroni di casa sembrano sbrigare la pratica senza troppe difficoltà: in vantaggio uno a zero dopo i primi 45 minuti, gli australiani raddoppiano nei minuti iniziali della ripresa.
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In quello che è il loro momento migliore, galvanizzati dalla seconda rete e con i tifosi entusiasti, accade l’evento inatteso. Un famoso interruttore di eventi invade il campo, si appende alla traversa e sfila una parte della rete. L’uomo viene portato via, ma la partita viene interrotta. Il pubblico continua a cantare a squarciagola; i commentatori australiani descrivono quella pausa come una buona cosa per i padroni di casa, ma nessuno si rende conto che l’andamento della gara sta per cambiare completamente. Ricorda molto il Maracanazo, quando Obdulio Varela riuscì nel capolavoro di ritardare la ripresa della partita dopo il primo gol del Brasile; evento che spense sul nascere il momento migliore della squadra avversaria. Lo stesso sembra essere accaduto in questo spareggio. L’interruzione dura tre minuti, ma alla ripresa del gioco cambia tutto. L’Iran alla mezzora accorcia le distanze e quattro minuti dopo pareggia: 2 a 2 il punteggio finale e qualificazione storica per gli iraniani, vent’anni dopo l’ultima volta.
Un popolo in festa, una gioia impossibile da contenere e controllare, come invano cerca di fare il governo. Le indicazioni per la squadra sono chiare: restare a Melbourne. Gli eroi ritornano in patria dopo tre giorni, nei quali si è cercato di sedare gli animi nel limite del possibile. Nelle piazze di Teheran e delle principali città iraniane si festeggia ballando e bevendo. Le canzoni sono quelle occidentali e le bevande sono spesso alcoliche: una situazione che verrebbe normalmente fermata con la forza, ma in questo caso proprio non si può. Nel popolo in estasi ci sono anche le donne, che con l’instaurazione della repubblica islamica avevano visto ridimensionato il loro ruolo rispetto all’era Pahlavi, durante la quale avevano ottenuto diritti quali l’accesso allo studio universitario, la possibilità di vestire in maniera occidentale e l’innalzamento dell’età minima del matrimonio, oltre che forti limiti alla pratica della poligamia. Tuttavia la rappresentanza femminile nella rivoluzione islamica fu massiccia: un dato di difficile lettura per noi occidentali, che dimostra come l’accelerata progressista non fosse al tempo un’esigenza così sentita da gran parte della popolazione femminile.
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Con la rivoluzione khomeinista la stretta sui diritti delle donne si concentrò su quelli civili. E le prime contestazioni femminili contro il governo riguardarono proprio il pallone, e chiesero a gran voce la possibilità di entrare allo stadio per festeggiare gli eroi nazionali (si parla di un numero che si aggirava intorno alle 5000 unità). Khomeini una decina di anni prima aveva dato il consenso affinché le donne potessero guardare il calcio in televisione; uno sport malvisto dall’Ayatollah, ma già visceralmente amato dal suo popolo. E proprio da quel popolo non erano escluse le donne: esse portarono avanti la protesta, fino a travestirsi da uomini pur di poter entrare allo stadio Azadi per vedere il derby di Teheran (Persepoli – Esteghlal) che, a quanto riporta Federico Buffa, “fa vibrare l’oriente”. Ma è solo l’inizio.
“Quando l’Iran si qualificò per la Coppa del mondo superando l’Australia a Melbourne, l’intero Paese festeggiò. La gente ballava nelle strade di Teheran bevendo alcool e le donne si tolsero i loro veli dalla testa. Le guardie rivoluzionarie non fecero niente perché anche loro erano felici. Anche loro tifosi di calcio prima, guardie rivoluzionarie poi.” (Mehrdad Masoudi)
Sarebbe già un capolavoro così: la qualificazione e la possibilità di misurarsi con le squadre migliori del mondo potrebbe considerarsi sufficiente, per fare di questa apparizione mondiale un evento da scrivere nei libri di storia. Ma il destino ha in programma altro. Al sorteggio l’Iran finisce nel gruppo F trovando – oltre a Germania e Jugoslavia – gli Stati Uniti. Partecipare non è più importante, perché ora c’è la possibilità di prendersi la rivincita sul nemico. Lo Stato che per anni ha appoggiato la monarchia, intervenendo nella politica interna di uno Stato sovrano e tutelando un governo corrotto ed odiato dalla maggior parte dei cittadini, fino a causare la sollevazione popolare. Entrambe le squadre perdono la prima partita, gli iraniani uno a zero contro la Jugoslavia, gli statunitensi due a zero contro i tedeschi. La seconda gara del girone prevede l’incontro storico, e chi perde è automaticamente fuori. Il modo in cui viene vissuta l’attesa della partita è completamente diverso nelle due Nazioni. Se molti giocatori statunitensi non hanno la più pallida idea delle sofferenze subite dai loro compatrioti – in uno dei tanti Stati in cui gli USA hanno recitato un ruolo delicato – o son troppo giovani per comprendere il difficile rapporto tra i due Paesi, dall’altra parte per gli iraniani quella partita è una questione di vita o di morte. Come dichiara l’attaccante Azizi, miglior giocatore d’Asia del 1997:
“Noi non perderemo la partita. Tante famiglie dei martiri si aspettano la nostra vittoria. Noi vinceremo per il loro bene”.
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La grande occasione
Lione, 21 giugno 1998. L’arrivo al calcio d’inizio è un susseguirsi di problemi, e si parte da un evento che niente ha a che fare con il campo da gioco. Nella settimana precedente la televisione francese manda in onda il film “Not without my daughter”. Una pellicola che narra la storia vera di una donna che abbandona l’Iran con la propria figlia, contro la volontà del marito. Un film che mette in cattiva luce l’Iran, dipinto come patria del fondamentalismo religioso, e che naturalmente fa infuriare gli iraniani. Passando invece alle questioni del rettangolo verde, l’Iran è sorteggiato come squadra visitatrice e quindi spetterebbe ai suoi calciatori, prima del calcio d’inizio, stringere la mano agli statunitensi, come prevede il protocollo. Gesto che non viene neanche preso in considerazione da Khamenei (la guida suprema succeduta a Khomeini), che dà ordine ai suoi di non muoversi. Un grande lavoro di mediazione viene dunque compiuto da Mehrdad Masoudi, l’addetto stampa della FIFA, il quale riesce a negoziare un compromesso con i vertici della Federazione, facendo in modo che fossero gli avversari a muoversi per la stretta di mano. Ma non è tutto: la notizia dell’ultima ora è che un’organizzazione terroristica avrebbe acquistato 7000 biglietti per mettere in mostra una protesta in diretta mondiale contro il regime iraniano. Questi erano i Mojahedin del Popolo Iraniano (Mojahedin-e Khalq), tra le formazioni più attive nell’opposizione al governo.
“Dall’intelligence ricevemmo le informazioni su chi fossero questi sabotatori. Rilasciammo ai camera-men televisivi delle foto in modo che sapessero quali persone e quali banner evitare. Il match veniva trasmesso in tutto il mondo e l’ultima cosa che volevamo era che questo gruppo sabotasse l’occasione e la usasse per il proprio scopo politico.” (Mehrdad Masoudi)
Ma i pericoli non si fermano qui. Si presenta infatti la possibilità di un’invasione di campo. L’ordine ricevuto dalle forze di sicurezza francesi è quello di intervenire solo in caso di “estrema necessità”. L’irruzione nello stadio avviene, senza che venga ripresa da nessuno per evitare un peggioramento della già caldissima situazione. Per concludere questo tortuosissimo arrivo al fischio d’inizio, il presidente della Federazione iranianachiede ai suoi giocatori di presentarsi in campo con una rosa bianca, che in Iran simboleggia la pace. Un segnale di distensione e una foto di gruppo che fa il giro del mondo. L’arbitro Meier non ha ancora fischiato l’inizio del match, ma il risultato più importante è già stato raggiunto da entrambe le parti. Dagli Stati Uniti per aver accettato di muoversi per primi e stringere la mano agli avversari, dagli iraniani per il gesto estremamente significativo delle rose bianche.
“Siamo venuti qui per mostrare a tutti che non ci sono problemi tra le persone dei due Paesi.” (Jalal Talebi, commissario tecnico dell’Iran)
Finalmente si può giocare. Sono gli Stati Uniti a rendersi subito pericolosi al terzo minuto di gioco, con una traversa colpita da un bel colpo di testa di McBride. Dopo il primo acuto la gara si accende, e nei minuti seguenti arriva un altro legno per gli americani. Le due squadre combattono su ogni pallone e al 40’ minuto arriva la svolta. L’Iran passa in vantaggio grazie ad un colpo di testa ad incrociare di Estili. Gli Stati Uniti cercano di pareggiare il risultato, ma la fortuna non è proprio dalla loro quella sera; altro palo per gli americani. All’84’, su un’ottima ripartenza l’Iran raddoppia con un’azione individuale di Mahdavikia. Sembra ormai fatta a pochi minuti dalla fine con un vantaggio di due reti; il miracolo sembra compiuto. Ma non è finita, c’è ancora il tempo per complicarsi la vita. McBride accorcia le distanze, grazie ad un’uscita disastrosa del portiere iraniano Abedzadeh. Non succede altro e al triplice fischio la panchina iraniana invade il campo, in un urlo di gioia che parte da Lione e si protrae fino a Teheran. Si ripete, e se possibile in maniera ancora più grande, ciò che era successo dopo la qualificazione. La popolazione scende in piazza a festeggiare la vittoria contro il nemico. Ci sono ancora le donne ovviamente e il governo riesce a nascondere le immagini di quei festeggiamenti dove, a quanto pare, ancora una volta l’alcool scorre a fiumi.
Ma se la vittoria è stata importante, ancora di più lo è stato il risultato extra-calcistico. La foto delle due squadre mischiate, le rose bianche, la stretta di mano degli allenatori. Ancora una volta, lo sport, il calcio, riesce a fungere da ponte, rompendo il muro che la politica aveva creato. Da quel momento in poi, con i dovuti tempi e nonostante le tensioni (anche attuali), le relazioni tra i due Stati sarebbero migliorate. Non resta che concludere con le parole del difensore statunitense Jeff Agoos:
“Abbiamo fatto più noi in 90 minuti che i politici in 20 anni!”.