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Atlete, registe, avvocate, scrittrici... le donne senza velo che cambiano l'Iran

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

La ragazza senza velo non è sola. Atlete, scrittrici, registe, avvocate... Più che "verde" l'Onda che ciclicamente si alza in Iran, reclamando diritti e libertà, è un'"Onda rosa". Oggi è stata liberata la donna iraniana che era stata arrestata dopo aver sfidato le autorità salendo su un piedistallo in un'affollata strada di Teheran e si era tolta il suo velo islamico, un hijab bianco, iniziando a sventolarlo. La donna, il cui nome non è stato rivelato, era divenuta un simbolo delle proteste che il mese scorso hanno scosso l'Iran, anche se il suo arresto era avvenuto alcuni giorni prima che iniziassero. Qualcuno con un telefonino aveva fatto un video, che era stato poi diffuso nel web.

"La ragazza della Enghelab Avenue è stata rilasciata", ha scritto sul suo profilo Facebook un'attivista per i diritti umani, Nasrin Sotoudeh, come riferisce Bbc News online. A "nuotare" per la libertà la ragazza di Enghelab Avenue non è sola. Elham Asghari nuota da quando aveva 5 anni. Nella sua carriera ha battuto il record iraniano di 20 chilometri in mare aperto, con indosso una muta, una cuffia e un lungo foulard nero. Indumenti che in acqua arrivano a pesare fino a 6 chili. Ma Elham non ha alternative: se una donna in Iran vuole nuotare deve essere coperta da capo a piedi. Nonostante ciò, la Federazione nuoto iraniana le ha negato il primato, a quanto pare perché durante la gara si erano comunque intraviste le sue forme femminili. "C'erano sei ufficiali di gara a certificare la mia impresa. Nessuno aveva avuto da eccepire. Solo dopo, la Federazione ha ritoccato il record a 18 chilometri e poi deciso di non registrarlo - dichiara Elham al Guardian - hanno detto che non importa quanto islamico fosse il mio costume: era comunque inaccettabile". Ma Elham Asghari non ha nessuna intenzione di piegarsi. Subito dopo il record negato, ha realizzato, con il giornalista Farvartish Rezvaniyeh, un video di protesta. "Nessun nuotatore accetterebbe mai di nuotare con questi costumi da bagno; nuotare con questi costumi fa male [...] Ho nuotato 20 km a Nowshahr (città settentrionale dell'Iran), ma hanno detto che avevo nuotato per 15 km, ho protestato e hanno accettato 18 km. Eppure adesso il record non è ancora registrato [...] Il mio record di 20 km è ostaggio nelle mani di persone che non riuscirebbero a nuotare nemmeno 20 metri. Ho passato giorni e notti difficili. È incredibile. Ma non cederò alle pressioni. Il nuoto non è solo per gli uomini - anche noi donne siamo molto brave".

Brave e determinate. In tutti i campi. Come lo è Marjane Satrapi, che si è rivelata agli occhi del mondo intero con Persepolis, graphic novel che racconta con grande umorismo la storia della sua vita e quella del suo Paese nel periodo compreso tra la caduta dello Scià Pahlavi e l'affermarsi della teocrazia khomeinista. "Persepolis – hanno affermato i critici - dice quel che un'intera generazione di cineasti non ha mai saputo far vedere fino in fondo: cosa significa essere donna in Iran". Essere donna significa lottare per veder riconosciuti i propri diritti e la propria identità, nella sfera pubblica come in quella privata.

Donne-coraggio, come la giornalista e attivista iraniana in esilio Masih Alinejad, fondatrice di "My stealthy Freedom" ("La mia libertà clandestina", il movimento che promuove i diritti delle donne, seguito su Facebook da un milione di persone. Ogni mercoledì, da qualche mese a questa parte, usando l'hashtag #WhiteWednesdays (mercoledì bianco), le donne iraniane hanno infatti pubblicato sui social network foto e video di se stesse mentre indossano un foulard bianco o indumenti bianchi come simbolo di protesta. "Per 37 anni, non solo i miei capelli, ma i capelli di milioni di donne iraniane sono stati tenuti ostaggio della Repubblica Islamica," dice Aleinjad, fondatrice di My Stealthy Freedom, che ha creato il sito nel 2014 quando viveva a Londra. "I nostri capelli sono stati tenuti ostaggio perché il governo vuole controllare i nostri corpi".

È stata uno dei primi giudici donna in Iran e la prima a diventare Presidente della Corte Suprema. Avvocata per i diritti umani: Shirin Ebadi ha aperto molte nuove strade e prospettive combattendo in prima linea per i diritti civili, per la pace e per il riconoscimento della donna. Nel 2003 le è stato conferito il Premio Nobel per la pace, premio che nel 2009 è stato sequestrato dalla polizia di Teheran nel corso di un'irruzione mentre lei si trovava all'estero.

"Donne senza uomini": è il titolo del film di Shirin Neshat, vincitrice del Leone d'argento per la miglior regia alla Mostra del cinema di Venezia 2009. "Io non vedo affatto le donne del mio Paese come vittime. – rimarca Nesha in una intervista - Anche se è vero il fatto che sono oppresse. Sono molto forti, non hanno mai fatto compromessi, hanno sempre combattuto per i loro diritti". E al giornalista che le chiede cosa possono insegnare le donne musulmane a quelle occidentali, Shirin Nesha risponde così: "A resistere e a fiorire nelle situazioni più avverse. In un mondo che le opprime e che nega molti beni materiali, le donne iraniane hanno trovato sollievo nella cultura, nel pensiero e hanno sviluppato idee. Un film proiettato in un minuscolo villaggio delle montagne può aprire gli occhi molto più di un comizio".

C'è chi il coraggio l'ha pagato con la vita. È il 20 giugno del 2009 quando Neda Agha Soltan, una ragazza iraniana di ventisei anni, viene colpita a morte da un pasdaran, mentre si stava recando, assieme al padre, a una manifestazione di protesta a Teheran. Il video della sua morte, girato con uno smartphone, fa il giro del mondo. I jeans, le scarpe da ginnastica, la maglietta nera, il sangue che le copre il viso, le urla di chi le tiene la testa mentre lei muore, il pianto di chi le è vicino. Neda diviene il simbolo della rivolta dell'opposizione iraniana, l'emblema dell'"Onda verde". In poche ore sul web, fra blog, siti, social network sono decine di migliaia (moltiplicati per cento nelle settimane successive) i messaggi in cui si fa il suo nome. Cambiano le lingue, ma la certezza è la stessa: "Non sei morta invano". Le donne senza velo ne sono la conferma. E non l'unica.

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