Virginia nemica delle donne
In un Paese in cui la Palma ad una scrittrice fa più notizia del suo romanzo, non stupisce che il Global Gender Gap Report ci riserbi la ottantaduesima posizione.
Quasi un record, considerando che nel 2016 eravamo al sessantatreesimo, e l’anno scorso al settantaquattresimo.
L’indice del Gap Gender fotografa la differenza di trattamento fra uomini e donne ponendo l’accento sulla forbice di disparità nei settori chiave della società civile.
Già nel 2017 il risultato dello stivale fu avvilente, ma ciò che più angoscia è che, a livello globale, la forbice della disparità, per la prima volta dal 2006, si sia allargata invece di stringersi.
Questo significa, senza giri di parole, che l’obiettivo uguaglianza si allontana sempre più e per quello che riguarda le differenze di opportunità nella vita economica per lei e per lui, l’Italia si è guadagnata uno strabiliante centodiciottesimo posto.
Ora, se non ci fosse da piangere, verrebbe spontaneo rivolgersi alla prima sindaca della storia di Roma e chiederle cosa ne pensa.
Virginia Raggi ha iniziato la sua carriera di sindaca facendo sedere il figlio suo scranno, ritenendo per ciò solo di dare un’immagine umana (e onesta) di sé.
Forse solo io, illo tempore, ritenni la cosa terribilmente squallida, perché di fatto, per lei, fu un vero successo.
Arriva una ragazza “acqua e sapone” – modo di dire efficace ma privo di senso – giovane, “alle prime armi” (in pratica talmente incompetente da risultare virtuosa), lavoratrice e mamma a fare la sindaca di Roma e come prima cosa che fa? Cede il posto ad un bambino di sette anni.
Che meraviglia, nemmeno Alemanno si era allargato così con i suoi parenti in Campidoglio.
Insomma da due anni la città è governata dal Movimento 5 Stelle e nei primi cento giorni di completo peggioramento dei servizi rispetto al passato tutti ci convincemmo che, in fondo, in cento giorni non si poteva rimettere in sesto una città disastrata, così complessa e così vasta.
Anche al sistematico cambiamento di assessori (quattro o cinque in cento giorni) ci dicemmo la stessa cosa.
Passano altri cento giorni, peggiorano altri cento servizi e cambiano altri quattro o cinque assessori.
In questo mare in tempesta, l’unico baluardo della Raggi diventa la difesa: “mi attaccano perché sono donna”.
Un momento. Se c’è una cosa che nessuna donna dovrebbe fare mai, si sa, è rispondere ad attacchi sul proprio operato sostenendo di venire criticata per il solo fatto di essere femmina. Essere il bersaglio di attacchi maschilisti è un rischio insito nell’essere donna, ma ogni donna che si rispetti lo sa, per questo non deve o non dovrebbe trovare appigli che soffocano anni di battaglie servite solo ed esclusivamente ad evitare questo.
E allora, al di là di come onori il suo mandato nei modi più disparati, dalla cura del verde urbano al trasporto pubblico, ciò che ora interessa è capire se e in che modo la prima donna con la fascia tricolore intenda affrontare le politiche di genere a Roma.
Così apro Facebook, digito Virginia Raggi, vado su “video”.
Non mi aspettavo di trovare così tanto, poco materiale.
Mi spiego meglio: il primo video in cui mi imbatto è datato maggio 2016, piena campagna elettorale, Myrta Merlino intervista Virginia Raggi a “L’aria che tira” e l’argomento riguarda proprio le donne in politica.
Sono passati ben settantadue anni dal 10 marzo del 1946, giorno in cui le donne italiane poterono andare a votare. Alla loro prima occasione di voto, le amministrative che precedettero il referendum del 2 giugno, l’affluenza toccò il picco mai visto dell’ 89% di votanti, e, di 2 mila candidate rosa, il risultato furono 21 elette su 226 candidate alla Costituente.
Ora, a parte alcuni noti esempi come l’amministrazione palermitana di Elda Pucci, quella milanese di Letizia Moratti e la nota esperienza napoletana con Rosa Russo Jervolino, in Italia è tutt’ora cosa rara l’amministrazione femminile di grandi città.
Non stupisce quindi che settant’anni dopo proprio la campagna elettorale romana sia partita con una polemica sul ruolo delle donne in politica: su una rosa di cinque candidati, due sono donne, una già e l’altra quasi madre.
Ricordiamo tutti come Berlusconi invitò la Meloni a mollare tutto e fare la madre, giusto?
Quindi ecco, il fatto che la Merlino abbia pensato di chiedere alla Raggi quale fosse la sua posizione rispetto a tali circostanze e se fosse emozionante essere la prima candidata nella storia di Roma pare del tutto comprensibile, eppure l’intervistata, quasi infastidita, risponde così, parlando sopra alla conduttrice: “guardi Merlino, la devo interrompere, perché il punto non è essere madri o donne, il punto è essere finalmente onesti, competenti, liberi da logiche partitiche, lobby. Siamo due donne sì, ma c’è donna e donna, io sono onesta e nuova, la Meloni invece campa da sempre di politica, quindi…”
Quindi? Sipario.
E così, arriviamo alla sua prima conferenza stampa, siamo al 20 giugno 2016, il giorno dopo il ballottaggio.
È con grande stupore che sentiamo pronunciare queste parole: “Oggi ha vinto tutta Roma, mi sento di dire che questo è un momento storico fondamentale che segna una svolta: per la prima volta Roma ha un sindaco donna, in un momento nel quale le pari opportunità sono solo una chimera questo cambiamento è fondamentale e lo dobbiamo tutto al movimento”.
Dopo di che arriviamo al 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne: Raggi posta un video di pochi secondi, titolato “in prima linea contro la violenza sulle donne”, in cui si vedono lei e altre donne della sua giunta intorno ad un tavolo.
Non un discorso, non un consiglio comunale, non una commissione, non un documento: un noiosissimo video di donne sedute intorno ad un tavolo che dura la bellezza di quarantotto secondi.
Ma il bello deve ancora venire, perché l’otto marzo del 2018 succede una cosa davvero curiosa: per la prima volta la Raggi compie un gesto concreto nei confronti delle donne aprendo tre sportelli antiviolenza nel VI, VII e X Municipio a Roma. Un grande risultato, considerato che lo stesso giorno dell’anno precedente non fu spesa una sola parola per le donne.
Dichiara la sindaca: “Questo giorno ricorda le battaglie che devono affrontare tutte le donne per avere una vera parità sostanziale di diritti e di doveri con gli uomini. Di fatto le battaglie che presiedono i temi sulle donne non sono più appannaggio delle donne ma anche dei nostri compagni di vita e questo ci dà più forza. Noi dobbiamo avere il coraggio di attuare politiche concrete per le donne perché essere madre è una scelta rispetto ad essere lavoratrice e noi dobbiamo lavorare su questi tessuti affinchè tutte le donne possano ricoprire a pieno il posto in società al di là delle quote rosa perché noi le sosteniamo”.
Ecco, questa dichiarazione fa sorridere se letta alla luce di quanto avvenuto pochi mesi prima, proprio in Campidoglio. Era maggio 2017 quando i pentastellati proponevano la modifica dello statuto abbassando al 40 per cento (quindi di 10 punti percentuali) la soglia di rappresentanza femminile necessaria per la formazione dell’esecutivo.
Quello che da tutte le opposizioni è stato definito un vero e proprio “colpo di mano”, veniva così giustificato dal presidente dell’assemblea capitolina Marcello De Vito: “L’amministrazione M5s impronta le sue scelte sul merito delle persone: prima di considerare se sia donna o uomo, conta verificare la professionalità del candidato. Ben venga scegliere sole donne, o viceversa, se tra loro vi sono i candidati più validi.”
E certo, in pratica i grillini avevano due alternative: o eliminare la parità di quote, o istituire la figura dell’ “assessore alle dimissioni”, visto tutto il tran tran cui abbiamo tristemente assistito.
Fatto sta che il 30 gennaio 2018 la modifica passa, e ora è effettiva. Gli articoli oggetto di modifica che riguardano la questione della parità di genere sono due: il 12 e il 23.
L’art. 12 trasforma la Commissione per le Elette, in “Commissione per le pari opportunità”, al di là del nomen, cambierà la composizione dell’organo: non sarà più composta esclusivamente da tutte le elette, ma solo da 12 membri (7 nei municipi), scelti fra uomini e donne.
La ratio è sensibilizzare il sesso maschile sui temi relativi alle donne attraverso un processo di partecipazione attiva ai lavori della commissione. Rispettabile come scelta, non si comprende come mai, almeno nel secondo municipio (quello in cui sono stata eletta io) i compagni a 5 stelle abbiano preferito candidare come membro della costituenda commissione l’unica donna del gruppo consiliare.
Ma il vero “casus belli” è l’art. 23, che regola la componente di genere nella formazione della giunta: in luogo di una previsione che stabiliva “la presenza, di norma in pari numero, di entrambi i sessi”, la nuova versione si limita ad indicare “la presenza di entrambi i sessi”, rimandando alla normativa nazionale per la loro quantificazione.
Gemma Guerrini, presidente della Commissione per le Elette, semplificò la cosa liquidandola così: “Abbiamo solo applicato la Delrio, nelle giunte nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento”.
Ora, le critiche mosse alla modifica in questione poggiano su un assunto inequivocabile: se cancelli la percentuale minima di genere del 50% introdotta dallo Statuto del 2013, abbassi l’asticella della percentuale minima di genere al 40% della norma nazionale. Cioè, se cancelli una previsione, la cancelli, non stai procedendo ad una mera modifica.
La legge Delrio del 2014, che si applica ai Comuni sopra i tre mila abitanti, prevede che “nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento”. Questo significa che esiste un minimo al di sotto del quale non si può scendere, ma che può essere superato. Ecco perché i grillini non avrebbero applicato, bensì aggirato una norma nazionale.
La sindaca, per contro, preferisce tagliare corto: “In Italia c’è un problema di leadership femminile, un problema legato al meccanismo quote rosa. È una legge che nasce per combattere la discriminazione femminile ma diventa ancor più discriminatoria, offende le donne e le confina. Onestamente per me le quote rosa rappresentano una sorta di recinto in cui si è voluto circoscrivere la presenza femminile, per cui se si rispettano le quote rosa va tutto bene. La parità di genere va promossa nella società ma non attraverso una quota fissa”.
Visto che le quote rosa non servono a un bel nulla, promuoviamo allora la parità di genere nella società!
Andiamo a Via della Lungara, siamo nella Casa Internazionale delle Donne: un progetto unico al mondo, un luogo che nasce come reclusorio per donne e ragazze pericolose per la morale che in seguito ad una battaglia del Movimento Femminista italiano è stato riconosciuto dal Comune di Roma come un organismo autonomo preposto a valorizzare la politica delle donne.
Negli anni ’70, i collettivi femministi occupavano la sede del Buon Pastore per via dello sfratto da palazzo Nardini e nell’83 il Comune riconosceva un canone di concessione simbolico in ragione dell’interesse pubblico della casa. La Casa come la conosciamo oggi nasce nel quadro delle opere del Giubileo e viene inaugurata nel 2002.
Parliamo di un luogo che offre assistenza legale tramite consulenze legali su diritto di famiglia; assistenza psicologica, psicosociale e legale a donne vittime di violenze di genere, bambini, adolescenti; assistenza medica, sì, nella Casa opera anche “Vita di donna”, che offre un ambulatorio di primo livello ostetrico e ginecologico, corsi di preparazione
al parto; consulenza al lavoro.
La Casa dovrebbe pagare al Comune un canone di 7 mila euro al mese, cioè più di 80 mila euro l’ anno: poco in assoluto, troppo per le donne che la fanno funzionare. E si sapeva. Lia Migale, economista e scrittrice, membro del direttivo, non lo ha mai nascosto di aver sempre pagato il 40 per cento di quanto preteso dal Comune, insomma, 2.500 euro al mese. In cambio i servizi, la manutenzione ordinaria e straordinaria dei luoghi.
Ottobre 2017, la giunta Raggi chiede il rientro del debito accumulato: sono 850 mila euro. L’offerta delle donne è un compromesso tutto sommato accettabile (se lo è quello dei 49 milioni della Lega): rateizzare parte del debito, chiedere uno sconto in considerazione delle opere di manutenzione realizzate negli anni, ma niente.
A maggio la mozione che rivendica il pagamento integrale immediato, pena lo sfratto. La Casa chiede un incontro ma il Comune “farà sapere a giugno”, dice la Guerrini, che il 25 luglio, in seguito all’incontro, scrive: “inammissibile è stata giudicata la loro proposta di rimodulare l’attuale canone concessorio, giacché l’affitto a prezzo di mercato dell’immobile al Buon Pastore risulta già abbattuto non dell’80%, come per tutte le altre concessioni in essere, ma – caso unico a Roma – del 90%”.
Caso unico sì, consigliera Guerrini, conosce forse altre realtà simili a Roma? Fatto sta che la concessione scade nel 2021 e chissà che ne sarà di questa esperienza.
In un momento di appiattimento morale e culturale, in cui la politica si è ridotta ai minimi termini e vince chi grida più forte, è arrivato il momento di alzare il tiro, perché restare a galla a boccheggiare non è più sostenibile.
Alzare il livello della discussione diventa indispensabile, perché va bene che queste donne sono in debito, ma è vero anche che hanno dato vita a uno spazio che la società deve riconoscere come “luogo sacro”, anche e soprattutto in vista del fatto che “le quote rosa sono un recinto per le donne che vanno aiutate in società” e non, quindi, tutelate dalla legge.
La Raggi pare essere affetta da una particolare repulsione per tutto ciò che riguardi l’essere donna. Oppure che sia talmente sazia di sé da restarne indifferente.
Già, perché quando la sindaca decide di abbassare di 10 punti percentuali la presenza di donne nell’esecutivo risponde che “sono solo chiacchiere”, è una donna che non ha colto fino in fondo l’importanza di certe battaglie. È una donna che non si rende conto di essere lì dov’è solo ed esclusivamente grazie al Movimento femminista. È una donna sazia della sua presunzione.
Cara sindaca Raggi, assessora Castiglione, consigliera Guerrini, qui non si tratta di fare i conti, non si tratta di bilancio né di economia, qui si tratta di capire se trent’anni e più di storia femminista abbiano un valore.
Da ultimo, se questo valore fosse quantificabile, correreste il rischio, sul serio, di trovarvi a vostra volta in debito con tutte le donne che nella Casa hanno trovato riparo.
Per una volta il buon senso comune potrebbe prevalere sull’onestà? Aspettiamo risposte.