Genevieve, Sahar, Adi e le altre siamo diventate sorelle in nome della differenza
Scrivo dall’aereo che mi sta riportando in Italia, dopo tre settimane negli Stati Uniti. Voglio condividere questa esperienza perché la ricchezza delle cose che ho visto, che ho vissuto ma soprattutto delle donne che ho conosciuto non possono rimanere solo a me e a poche altre fortunate persone che erano con me. Ma facciamo un passo indietro. Il Dipartimento di Stato che si occupa dei rapporti internazionali per il Governo Americano ogni anno seleziona e sponsorizza professionisti in vari settori per far parte del International Visiting Leadership Program. Si tratta di una mission degli Stati Uniti che permette di far conoscere l’eccellenza, la cultura, la storia, la società statunitense in vari settori a leader di tutto il mondo in vari ambiti. L’obiettivo è quello di far conoscere dall’interno il sistema americano. Ed è così che oltre un anno fa l’Ambasciata Americana a Roma mi ha candida a Washington DC per far parte del prestigioso programma IVPL su Women and Justice, in base alla mia esperienza, al mio lavoro in Italia e all’estero sui temi dei diritti delle donne e pari opportunità. Competenze ed esperienze che ho maturato sia come studiosa ma anche come attivista impegnata da 20 anni nel sociale per la tutela dei diritti delle donne, soprattutto le vittime di violenza, grazie partecipando all’organizzazione non governativa, Differenza Donna, associazione di donne contro la violenza alle donne.
Mi dicono che farò parte di un gruppo di 20 delegate e delegati di altrettanti paesi di tutto il mondo. Obiettivo: conoscere il sistema giuridico e giudiziario a livello federale in merito all’accesso alla giustizia delle donne, e in particolare la tutela delle donne vittime di violenza. Il mio ruolo nella mission è far conoscere cosa faccio, cosa viene fatto in Italia in materia di diritti delle donne, soprattutto donne vittime di violenza; conoscere gente, instaurare rapporti professionali e contatti per lo scambio di conoscenza e best practice.
Arriva il momento di partire e la prima tappa è Washington. Prima di partire non sapevo che cosa aspettarmi o chi aspettarmi in quel gruppo. Non sapevo come mi sarei trovata, come avremmo potuto convivere per tre settimane fra totali estranei e background così diversi e con un programma che già si prospettava sicuramente interessante ma impegnativo. Diciotto donne e due uomini. Dopo appena due giorni insieme a Washington siamo diventati un gruppo coeso, una famiglia: 18 sorelle e 2 fratelli dai 24 ai 45 anni. Molte le donne giovanissime, tutte professioniste, avvocate, magistrati, attiviste, direttrici di associazioni per la promozione dei diritti delle donne, colleghe universitarie, giovanissime ma con già mille esperienze e ruoli di spicco nelle loro società. Meeting dopo meeting al US Department of State, alla Corte Federale del Distretto di Columbia (DC), alla Frankling Roosenvelt University, alla Suprema Corte degli Stati Uniti, ad alcune associazioni non profit per la tutela delle donne vittime di violenza, solo per citarne alcuni.
In ogni occasione ascoltavamo quello che fanno, come lavorano e poi noi a fare domande su domande, portando esempi dai nostri paesi. Chiedevamo sempre delle loro esperienze, del loro lavoro, le leggi, le norme sociali, come tutto questo potesse riflettere una autentica partecipazione delle donne alla vita attiva sociale, economica, politica e come veniva affrontato il problema dell’economic gender gap, del salario minimo, tema molto discusso proprio in questi giorni dal Presidente Obama. Dopo Washington, Albany (State of New York), il gruppo si è suddiviso in 4 sottogruppi per visitare altri Stati. Io sono andata in Texas, Dallas e Fort Worth. E lì ho visto come lavora un Family Justice Center, un luogo dove la donna vittima di violenza, con eventuali figli, trova nello stesso posto tutti i servizi di cui ha bisogno per far fronte al problema della violenza e intraprendere un nuovo percorso di autonomia. Nello stesso luogo ci sono appartenenti della polizia, cousellor, referenti per i minori, per i servizi sociali, legali. La donna senza dover girare fra vari uffici, in un solo luogo viene presa in carico e le vengono date risposte e intraprese azioni per far fronte al problema della violenza. Un po’ quello che i Centri antiviolenza riescono a fare, là dove adeguatamente sostenuti a livello economico dagli enti locali o a livello nazionale, in Italia. Negli Stati Uniti il privato e l’istituzionale coabitano e si coordinano immediatamente, tempestivamente e in maniera organica. Si evita così che le maglie della rete di sostegno per una donna vittima di violenza possano pericolosamente allargarsi e lasciare la donna in una situazione di vulnerabilità e rischio.
Abbiamo visitato anche alcune prigioni femminili. In Texas puoi finire in prigione se guidi in stato di ebrezza. Ne ho conosciute di ragazze anche giovanissime che scontavano la loro pena per aver violato il codice della strada e aver messo la loro vita e quella di altre persone a rischio. Poi Reno, Nevada e infine tappa a San Francisco, unica città degli Stati Uniti ad aver ratificato il Cedaw (UN, 2013), unica città ad avere dal 1964 una commissione speciale per i Diritti Umani, Presidente Susan B. Christian, Direttrice Theresa Sparks. Città che in materia di diritti civili e in particolare per immigrati, donne vittime di violenza, diritti LGBT è forse la più evoluta del mondo. Il Municipio, quando ero lì, celebrava matrimoni omosessuali con la stessa frequenza di quelli eterosessuali.
Stiamo cercando anche noi, a Napoli, di seguire quel modello, infatti nell’ottobre del 2013 il Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris nella sua visita istituzionale a San Francisco ha deciso di stilare un protocollo di intesa con il sindaco di San Francisco Ed Lee e il senatore Mark Leno. Verrà creata «una piattaforma di lavoro comune per lo sviluppo di buone pratiche a difesa delle pari opportunità, della auto affermazione, della promozione dei diritti e della lotta ad ogni forma di discriminazione sociale sulla base della condizione medica, discendenza, colore, fede, disabilità, identità di genere, nazionalità, identità etnica, religione, sesso/genere e orientamento sessuale».
Davvero un bel segnale che dovrebbe essere preso a modello da altre amministrazioni locali in Italia e non solo. Ma San Francisco è molto di più: è una città dove tutto o quasi viene riciclato, dove le navi che arrivano al porto spengono i motori per non inquinare e sostano in porto con un sistema elettrico, che anche se inizialmente può risultare cara in poco tempo ripaga. A San Francisco ci sono 120 etnie e altrettante lingue parlate; per ognuna garantiscono un sistema di traduzione immediato, per esempio, a chi si reca dalla polizia per denunciare una violenza. Sogno una Napoli tollerante, pulita e organizzata come San Francisco. Gli Stati Uniti, è vero, sono anche una bella combinazioni di contraddizioni, di ricchezze e povertà, di solidarietà e di odio, di orgoglio nazionalista e ancora di discriminazioni.
Ma torniamo al nostro gruppo. Giorno dopo giorno, viaggiando insieme, mangiando insieme, lavorando insieme ci siamo raccontate le nostre realtà, cosa accade nei nostri paesi, cosa fa ognuna di noi. Ho conosciuto donne come Adi, isreliana ma che non condivide l’occupazione dei Territori Palestinesi e come legal advisor tutela le donne nelle corti religiose in cui i diritti vengono spesso negati, trovandosi spesso a combattere l’integralismo dei suoi stessi connazionali. Sahar dello Yemen laureata in legge che appartiene a un movimento politico che cerca di garantire l’educazione alle bambine, mi ha raccontato che nel suo paese in continuo stato di guerra civile e minacce di Al Qaeda il 60% della popolazione non ha un’educazione di base, e le bambine più di tutte sono quelle che vengono discriminate. Prima di azioni di promozione dei diritti civili servono infrastrutture, scuole, ad esempio, che spesso distano due ore a piedi dai villaggi. E lei con quei suoi bellissimi occhi neri che ti guarda le vedi impressa la speranza ma anche lo smarrimento. E poi c’è Genevieve, magistrata nigeriana agguerritissima, simpaticissima, che fa sempre domande acute, e osserva tutto. Ha una dignità tale per il suo popolo, anche di fronte alle domande sulle oltre 200 bambine rapite. Preferiva non dichiarare nulla in pubblico per evitare strumentalizzazioni o demagogie inutili. Diceva però che la pressione internazionale è importantissima, perché il loro presidente adesso non può non attivarsi e cercare di risolvere questa tragedia che prima ancora che politica è umana. Anche l’Associazione Differenza Donna ha aderito alla campagna #bringbackourgirls (foto 25) con il gruppo di operatrici del centro antiviolenza Prendere il volo che si occupa delle ragazze uscite dal racket della prostituzione, fornendo loro ospitalità e protezione.
Ho conosciuto donne dell’Etiopia, Armenia, Uganda, Azerbejan, Turchia, Burkna Faso, e anche chi in Tunisia è stata in prima fila nella Primavera Araba e ora continua a sostenere la loro causa rischiando spesso la vita. Poi c’è Maida, anche lei avvocata che lavora per un’organizzazione internazionale in Bosnia Erzegovina e che con la dolcezza e bellezza del suo volto e portamento ti racconta ancora delle case fantasma a Mostar e di come lei si ricorda, che quando aveva 10 anni e per molti anni ancora durante e dopo la guerra, per evitare il rischio bombe, mangiava insieme alla sua famiglia seduta per terra. Suo padre avendo una moglie e due figlie aveva pensato al suicidio-omicidio di tutta la famiglia, per evitare che subissero anche loro gli stupri che stavano annientando migliaia di donne. La guerra per lei è stato anche questo. A loro è andata bene, e la bellissima Maida è riuscita a trasformare la tragedia della sua vita e della sua gente in un impegno e lotta costanti per la tutela dei diritti delle donne e delle bambine.
Poi c’era Salma del Sudan una giovanissima avvocata che è una fra le poche che ha voluto occuparsi dei processi di stupri contro bambine violentate, mutilate e abbandonate. Ha lasciato il lavoro in varie organizzazioni a causa della corruzione dilagante e ha fondato la sua. Ma spesso si dispera perché adesso l’embargo statunitense che serve a colpire il regime ha bloccato ogni possibilità di sostegno, anche economico, a questi paesi con la conseguenza che chi ne paga le spese sono i civili, le associazioni che non hanno colpe e che muoiono come mosche, all’oscuro da tutti.
I due soli rappresentanti uomini, malgrado le mie diffidenze iniziali, temendo il tipico atteggiamento del maschio che si trova in un gruppo di donne, sono stati splendidi, delicati e autentici. Anche loro nei loro Paesi, Kenia ed Eritrea si occupano di tutela e promozione dei diritti umani con particolare riferimento all’adempimento del Rule of Law: il rispetto da parte di un determinato paese dell’accesso alla giustizia, di tutela, di contrasto alla corruzione.
Poi c’erano donne rappresentanti della Tanzania, dell’Argentina, India, Malesia, dell’Oman. Eravamo un misto di culture, religioni, tradizioni, colori, abitudini, accenti, ma tutte e tutti legati, uniti, solidali. Pronte e pronti ad aiutarci e ad ascoltarci in qualsiasi momento nei momenti di svago, di lavoro, di riposo o di sofferenza. Non avevo mai vissuto niente del genere. Ora mi sento un po’ sola senza le mie sorelle ed i miei due fratelli. Vorrei tanto invitarle e invitarli tutti a Roma per un seminario internazionale, se ne avessi la possibilità e far conoscere a un auditorio più ampio le storie uniche, l’esempio, la forza, la determinazione e l’autenticità che ognuna di loro ha nel cuore e nell’anima. Magari durante il semestre europeo sarebbe un bel messaggio di speranza, forza e condivisione civile fra i popoli con la spinta vincente e coraggiosa delle donne. I sorrisi di queste foto sono il nostro messaggio di forza, rispetto, amore e speranza perché lavoriamo tutte per uno stesso scopo, che ci rende tutte uguali nelle nostre diversità: il contrasto a ogni forma di discriminazione basata sulla razza, religiose e soprattutto sul genere, perché solo nella libertà delle mie simili può esistere la mia.