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Chris era un appassionato intenditore di musica classica e lirica. Col tempo era diventata una consuetudine che mi prendesse in giro perché io, milanese, non ero mai stato alla Scala. Per lui era inconcepibile, sosteneva che alla Scala ci si dovesse andare anche solo per ammirarla da fuori e respirarne l’aria.Se c’ero poi stato è la prima domanda che mi ha fatto anche l’ultima volta che ci siamo incontrati al Cairo, aprile 2011. Io ero in transito per ritornare a Benghazi, lui arrivava da Beirut, era in giro per il Medio Oriente insieme a Christina, la donna che sarebbe dovuta diventare sua moglie. Dovevano decidere dove stabilirsi, Istanbul, Beirut o Il Cairo.Ci siamo incontrati al ristorante La Mezzaluna, a Zamalek. Ci dicevamo che appena tre mesi prima, per andare da quella zona a piazza Tahrir si dovevano prendere precauzioni (lui venne sequestrato brevemente dai partigiani di Mubarak) e ora tutto sembrava ritornato alla normalità, mentre lì vicino, in Libia, tutto stava per riesplodere.Voleva sapere della Libia dove io ero già stato nei giorni dell’inizio della rivolta. Chris era ottimista, io purtroppo - i fatti mi hanno dato ragione - molto meno. Christina come al solito ascoltava, lei è avvocato e si occupa di diritti umani.Ce la siamo raccontata, Chris ed io. Da lì a poco sarei ritornato in Libia per il NY Times Magazine, lui tornava a casa.Quella è stata l’ultima volta, nessuno poteva immaginare quale tragico destino l’aspettasse, non lui almeno, che non era certo il fotografo “cowboy” che cerca disperatamente il pericolo per mostrarsi coraggioso. A Chris interessava la gente. Ricordo che sul blog del Chicago Tribune nel marzo del 2011, parlando del suo lavoro, scrisse: «Tra quello che è pericoloso e quello che non lo è passa un confine molto sottile, se ho brutti presentimenti preferisco abbandonare il posto e certe situazioni, ma a volte non li puoi evitare».
A Misurata il 20 aprile 2011 Chris non ha potuto sfuggire al destino, e quel giorno era lì perché per chi si occupa di immagini essere “in guerra” è occuparsi della vita raccontando la morte, rispettandole tutt’e due. Oggi leggendo cosa sta succedendo in Libia e in Iraq, ci si domanda se ne vale la pena.Mercoledì scorso a Benghazi, dopo continui attacchi a lei e alla sua famiglia, Salwa Bughaighis è stata assassinata poco dopo aver votato. L’avevo conosciuta in piazza a Benghazi, era un’intellettuale sempre in prima linea per i diritti delle donne. Sicuramente con la sua morte l’iniziale idealismo delle rivolte del 2011 contro il regime di Gheddafi ha ricevuto un colpo e per molte libiche è stata la perdita di un modello.La situazione libica attuale non promette niente di buono, il paese è diviso e in mano a bande armate più o meno riconducibili a frange jiaidiste. Impossibile spostarsi e fare il proprio mestiere. Nel dicembre scorso sono stato a Tripoli, dovevo fotografare l’ambasciatrice americana. In tre giorni di viaggio ho visto la macchina che mi ha prelevato all’aeroporto, la mia camera d’albergo, il compound americano. E poi brevi soste, iperscortato, in zone fuori città. Tripoli l’ho vista appena attraverso i vetri blindati di un Suv.E in Iraq che cosa sta succedendo? Ho passato sette anni della mia vita a documentare quella guerra, la guerra di mister Bush e di mister Cheney. Perché migliaia di iracheni sono morti e migliaia di giovani reclute americane sono tornate a casa nei lugubri sacchi neri di plastica? Me lo domando ogni giorno e non so rispondere.Ascoltando le notizie che arrivano da tutto il mondo non si riesce ad avere la percezione di cio’ che realmente accade. I conflitti etnici, di religione, di confine, legati a rivendicazioni economiche, non hanno eco nella coscienza di noi lettori di giornali (o di noi che guardiamo le fotografie stampate sui giornali). Uno sguardo e via. E che ne sappiamo di quello che succede in Afghanistan, in Kashmir o in Birmania? Quasi nulla, non ci interessa più di tanto.Ormai ci troviamo di fronte a guerre che escono dai canoni, sono diventate guerriglie e se stai da una parte vieni visto dall’altra come un nemico. Questo è il motivo per cui è morto Chris, e tanti altri hanno continuato a morire. Per questo per noi fotografi è diventato più difficile lavorare.
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Impossibile per esempio documentare ciò che accade in Iraq nelle zone occupate dall’Isis: con il governo al potere si potrebbe investigare su quei territori, ma in realtà ti viene impedito. La stampa è sempre più controllata, anche questa è una conseguenza di quei 10 anni di guerra che doveva portare la democrazia. Ho ascoltato un comunicato stampa del portavoce dell’esercito di Baghdad e sembrava di risentire il ministro dell’informazione di Saddam quando ci diceva che “l’eroico esercito iracheno“ stava respingendo gli americani, che noi sapevamo essere a un chilometro dalla capitale. Non è cambiato nulla, se non che gli americani e i loro media ora se ne disinteressano: non è la guerra del presidente Obama, se la sbrighino loro. Nel frattempo l’America è diventata esportatrice di fonti energetiche, 10 anni fa non lo era.
Forse a tavolino il mondo è già stato diviso e noi non lo sapremo mai. Ma i fotografi continueranno a documentare le guerre rischiando la vita, per far capire una realtà che essi stessi forse non sono in grado di conoscere completamente mentre la documentano. Personalmente penso però che essere un testimone è un privilegio. Vedere e far vedere attraverso la fotografia lo stupro del mondo che è la guerra può essere uno strumento molto potente per combatterla. Se un’immagine farà riflettere, anche la vita di Chris Hondros non si sarà consumata invano.