Kenya, la battaglia delle minigonne
Tutto è cominciato a inizio novembre in una strada di Nairobi, quando una ragazza è stata spogliata a forza e derubata da due giovani che la accusavano di essere abbigliata in modo “indecente e tentatore”. Da allora le aggressioni si sono moltiplicate. In un caso, una donna è stata assalita da un gruppo di almeno una dozzina di persone, che non contente di svestirla l'hanno picchiata. Una vera e propria “moda” che vedeva spesso gli autori, evidentemente fieri del loro coraggio, filmare e diffondere in rete le loro gesta. Le richieste di una punizione esemplare per i responsabili sono cadute nel vuoto: la legge permetteva alla polizia di intervenire solo su richiesta delle vittime, molte delle quali erano troppo spaventate o umiliate per sporgere denuncia. Le attiviste keniote per i diritti delle donne hanno allora deciso di organizzare una mobilitazione, chiedendo a tutte di scendere in piazza con canottiere e gonne corte. Un corteo di almeno un migliaio di ragazze ha marciato per le strade della capitale, accompagnato da numerosi uomini e anche da donne che hanno preferito sfilare con lo hijab, seguendo il motto della manifestazione #MyDressMyChoice, “I miei vestiti sono una mia scelta”.
L'iniziativa non è stata gradita a molti gruppi religiosi, sia musulmani che cristiani. «Durante la protesta c'erano tutti questi uomini attorno a noi che minacciavano di strapparci gli abiti e bruciarli», racconta su twitter Ndinda, una delle manifestanti. «Per un momento mi sono sentita così scoraggiata». Sui social è partita la campagna “My Dress My Choice Challenge”, che invita le donne a fotografarsi indossando i propri capi di abbigliamento preferiti. Anche in questo caso gli uomini sono divisi. «Questa battaglia solo l'inizio. Quello che davvero vogliamo è il progresso», twitta in sostegno delle ragazze il ventenne Oscar. «Che lezione state dando ai vostri figli? Volete che proteggano le bambine o le considerino loro pari? Attente, il diavolo è furbo», scrive invece Ted, mentre il blogger Robert Alai, pur non giustificando le aggressioni, accusa le vittime di “violenza” nel voler imporre i loro corpi. Molti altri suggeriscono alle donne di concentrarsi su una causa meno “frivola” come, ad esempio, i diritti dell'infanzia. «Il problema vero non è la lunghezza del vestito - risponde in un tweet Kenisha, che appoggia la lotta dagli Usa -. È che le donne non vogliono più rimanere nelle gabbie che gli uomini insicuri hanno costruito per loro».
Riuscire a organizzare la marcia è stata già di per sé una piccola vittoria per le attiviste. In febbraio nel vicino Uganda, dove è vietato per legge indossare “qualunque cosa che lasci scoperte le ginocchia”, la polizia aveva bloccato una manifestazione simile. Le kenyote invece non solo hanno sfilato senza grossi incidenti, ma hanno ottenuto un'importante vittoria. Dopo diversi arresti (tra cui quello di un poliziotto) e l'incriminazione di due uomini per abusi sessuali il governo si è convinto a varare una nuova legge: chiunque tenti di svestire qualcuno per strada verrà perseguito in automatico, e rischierà almeno 10 anni di carcere.