La storia della sterilizzazione delle donne native americane
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Tra il 1970 e il 1976 circa il 25% delle donne native americane vennero sterilizzate negli Stati Uniti. Questo drammatico capitolo della storia statunitense non è molto noto, pur riguardando un fenomeno che, anche al giorno d'oggi, rimane terribilmente attuale. La vicenda inizia nel 1970 con la scelta da parte del governo americano di introdurre una legge, il Family Planning Services and Population Research Act, per garantire alle donne con basso reddito la possibilità di usufruire di diversi metodi contraccettivi tramite le strutture ospedaliere. I mezzi per controllare le nascite proposti alle donne sono diversi e vanno dalla pillola ai gel spermicidi,alla spirale intrauterina fino a arrivare alla sterilizzazione definitiva, tramite un intervento chirurgico. I contraccettivi vengono proposti anche alle donne native americane che in quel periodo presentano un tasso di fertilità molto alto. Come riporta Jane Lawrence dell'Università del Nebraska, infatti, un censimento del 1970 indicava che in media ogni donna nativa americana dava alla luce 3,79 figli, mentre la mediana calcolata per tutti gli altri gruppi etnici era di 1,79. È in questo quadro, dunque, che si verificano gli episodi denunciati nel 1977 da Marie Sanchez, giudice tribale capo della Northern Cheyenne Reservation. Sanches, come riporta Time, arriva infatti a Ginevra in occasione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti degli indigeni con un chiaro messaggio: le donne indiane americane sono bersaglio di una "forma moderna" di genocidio, la sterilizzazione.
L'accusa viene supportata da diversi studi, come quello condotto nel 1974 dalla dottoressa Connie Pinkerton-Uri secondo il quale le donne indigene sottoposte a interventi di sterilizzazione avevano firmato i documenti di consenso perché minacciate di perdere i loro figli o le loro prestazioni previdenziali. La maggior parte di loro, inoltre, aveva dato il proprio consenso sotto sedativi, prima del taglio cesareo, o in preda al dolore durante il travaglio. Inoltre, le donne native americane, in molti casi, non avevano compreso il significato del modulo di informativa (scritto in inglese a un livello per loro troppo complesso per il loro livello di istruzione) e i medici non avevano provveduto a spiegare adeguatamente la procedura irreversibile. Come conseguenza di questi interventi (avvenuti con tali modalità abusive) le donne native americane, spiega la studiosa Jane Lawrence, hanno presentato, negli anni successivi, tassi più elevati di problemi coniugali, alcolismo, abuso di droghe, difficoltà psicologiche, uniti a vergogna, senso di colpa e perdita di fiducia nel sistema medico. La fertilità, infatti, è considerata un valore sacro dalla popolazione indigena americana, fonte di rispetto ed orgoglio, ma ha anche una valenza politica, dato che il livello di potere di una comunità all'interno del governo tribale è influenzato dal numero di persone che la compongono. La sterilizzazione, dunque, non ha colpito solo le donne, ma anche i loro compagni, le loro famiglie e gli amici: molte coppie si sono separate e molte amicizie sono finite. Ne ha risentito profondamente anche il rapporto tra le comunità indigene e il governo americano che tuttora non si è pubblicamente scusato. Nel 1976, il Congresso ha approvato l'Indian Health Care Improvement Act, garantendo alle tribù il diritto di gestire o controllare i programmi del servizio sanitario. Da allora non sono più stati segnalati episodi di sterilizzazione della stessa portata, ma la sanità rimane un problema all'ordine del giorno per le comunità indigene americane.
Questa drammatica vicenda continua a avere una tragica rilevanza anche al giorno d'oggi. La sterilizzazione forzata delle donne appartenenti a gruppi etnici minoritari, infatti, viene tuttora utilizzata come forma di repressione (collegata a ideali di razzismo e "selezione della razza") o semplicemente messa in atto sulla base dell'idea che alcune donne (magari povere, con un basso livello di istruzione o appartenenti a culture diverse da quella occidentale) siano "inadatte" al ruolo di madre. Di recente episodi di questo tipo si sono verificati in Canada, dove, come scrive il Corriere della Sera, 60 donne indigene, nel 2017, hanno presentato una class action denunciando di essere state sterilizzate contro la loro volontà e moltissimi casi simili sono stati riportati da Amnesty International. Episodi del genere, poi, sono stati riscontrati anche nella Repubblica Ceca, nei confronti delle donne rom: la pratica, quindi, è lontana dall'essere parte del passato. In molti Stati, inoltre, come spiega l'articolo di Time, continuanoa non essere previsti controlli stringenti su questi interventi e sulle modalità con cui viene richiesto il consenso.
La sterilizzazione forzata oltre a essere considerata, a livello internazionale, una grave violazione dei diritti umani (alcune convenzioni, infatti, la citano tra le forme di genocidio) è anche riconducibile al fenomeno della violenza ostetrica e, più in generale, a un tentativo di controllare i corpi delle donne. Misoginia e razzismo si intersecano quindi in modo drammatico, rendendo le madri indigene vittime in quanto donne e in quanto appartenenti a un'etnia e cultura minoritaria. Questo fenomeno va combattuto, a livello statale e internazionale, ma soprattutto è importante discuterne e comprendere che, come insegna il femminismo intersezionale, nel parlare di diritti delle donne non si può prescindere da come questi si fondano a altri elementi di disuguaglianza, come la condizione sociale, l'orientamento sessuale o, come in questo caso, l'appartenenza etnica.