Turchia, partito per diritti di donne e gay minaccia il sogno di Erdogan di modificare la Costituzione
Bruxelles – Ha viaggiato senza sosta in tutto il Paese, occupato ogni possibile spazio sui media, attaccato con violenza ogni avversario, politico e non. Basta l’atteggiamento tenuto nelle ultime settimane da Recep Tayyp Erdogan a dare un’idea di quanto l’attuale presidente turco si giochi con le elezioni politiche di domenica. Una votazione, sono concordi gli analisti, che può confermare il monopolio assoluto dell’uomo da 13 anni al potere in Turchia o decretarne l’inizio della fine. Tutti i sondaggi di questi giorni preannunciano un sensibile calo di consensi per l’Akp (il partito islamico Giustizia e Sviluppo) di Erdogan: si parla di una forbice che può andare dal 38 al 42%, in ogni caso una netta perdita di voti rispetto al 49,8% ottenuto nel 2011. Un risultato di questo tipo, oltre che costituire una chiaro messaggio del popolo turco, impedirebbe soprattutto la realizzazione del grande progetto di Erdogan: quello di sostituire l’attuale sistema parlamentare con uno presidenziale, attribuendosi poteri da “superpresidente”. Per farlo occorrerebbe una modifica della Costituzione per cui servono almeno i tre quinti dei seggi: una vittoria schiacciante che questa volta Erdogan non è affatto sicuro di ottenere.
Mai come oggi gli avversari sono tanti e agguerriti. A sottrarre consensi decisivi all’Akp potrebbe essere in particolare una nuova forza politica, il Partito popolare democratico (Hdp), fondato nel 2012 come promanazione di precedenti partiti curdi e guidato da Selahattin Demirtas, 42enne avvocato per i diritti umani che ha dato al partito una connotazione sempre meno etnica e sempre più progressista, laica e liberale. L’Hdp, che si definisce come “l’unico partito turco contro il sistema e contro lo status quo”, è il vero outsider delle elezioni: piace ai giovani e si batte per “i diritti e le libertà di tutti”, mettendo come punti chiave del suo programma i diritti delle donne e degli omosessuali, insieme a quelli di tutte le minoranze etniche e religiose. Il partito propone un salario minimo di 1.800 lire turche (circa 605 euro), ha nello statuto la copresidenza di un uomo e una donna, nelle sue liste una quota è destinata alle donne e compare anche il nome di Baris Sulu, primo omosessuale dichiarato a candidarsi per un seggio del parlamento di Ankara. I sondaggi prevedono che riuscirà a superare l’elevata soglia di sbarramento del 10%, conquistando una cinquantina dei 550 seggi parlamentari e facendo svanire il sogno dell’Akp di raggiungere quei tre quinti necessari per modificare da solo la costituzione. Anche perché il partito ha già promesso: “Non appoggeremo un governo dell’Akp né dall’interno né dall’esterno”.
Oltre ad Akp e Hdp, altri due partiti dovrebbero riuscire a superare lo sbarramento ed entrare in Parlamento. Uno è il Chp, partito repubblicano popolare, primo partito di opposizione, che alle elezioni del 2011 ha conquistato il 25,98% dei voti. È un partito laico, fondato nel 1923 dal padre della Turchia moderna, Mustafa Kemal Ataturk. La sua campagna è stata incentrata sull’antagonismo con l’Akp, additato come partito corrotto. L’altro partito che dovrebbe conquistare seggi è l’Mph, il Partito del movimento nazionalista, un partito di destra e ultranazionalista che alle precedenti elezioni parlamentari ha ottenuto il 13,01% dei voti. Il partito chiede la fine immediata dei negoziati di pace con i ribelli curdi del Pkk. Non è detto che l’Akp, che dal 2002 è alla guida di esecutivi monocolore, sia costretto per la prima volta a coalizzarsi per governare. Ma il problema resta: tutti e tre i partiti che, insieme all’Akp, hanno chance concrete di entrare in parlamento sono contrari all’introduzione del sistema presidenziale voluto da Erdogan.
A pesare sui consensi dell’attuale presidente è in parte ancora l’enorme scandalo corruzione esploso nel dicembre 2013, quando Erdogan era ancora premier. Furono coinvolti suo figlio, i figli di quattro dei suoi ministri e molti altri uomini del suo entourage. Le intercettazioni di alcune sue telefonate (la cui autenticità in realtà non è provata) sembrano legarlo a quello scandalo per cui non è però mai stato indagato. Per molti osservatori, è cominciato proprio da lì il calo della sua popolarità, già compromessa dalla dura repressione delle proteste antigovernative dell’estate precedente. Negli ultimi giorni un nuovo caso è esploso quando un quotidiano schierato su posizioni antigovernative ha pubblicato un video del 19 gennaio 2014 che mostrava mezzi dei servizi segreti turchi impegnati nel trasporto di armi destinate ai jihadisti in Siria. Erdogan ha reagito furiosamente contro il direttore del giornale, che è finito sotto processo e per cui è stato chiesto l’ergastolo, suscitando una nuova ondata di proteste internazionali.