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Sinéad O'Connor in Italia: «Non sono una sopravvissuta, ma una sacerdotessa»

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

Quando si parla di Sinéad O’Connor la domanda è da qualche tempo sempre la stessa: come sta? A seconda dei periodi la risposta cambia: se a ridosso della pubblicazione del suo album più recente, l’ottimo I’m Not Bossy, I’m the Boss del 2014, la songwriter di Dublino era sembrata in forma, successivamente la prospettiva è cambiata in modo drastico. «Sono sola. E non c’è niente nella mia vita eccetto il mio psichiatra, la persona più dolce al mondo, che mi tiene in vita», dichiarava in un filmato condiviso su Facebook un paio di anni fa, il volto attraversato dalle lacrime. «Vivo in un motel Travelodge nel New Jersey, voglio che tutti sappiano cosa significa, e perché faccio questo video: le malattie mentali sono come le droghe, sono uno stigma, all’improvviso tutte le persone che dovrebbero amarti e prendersi cura di te ti trattano male». 

Circa un anno prima, nella primavera del 2016, erano stati i giornali a diffondere la notizia della sua scomparsa: nessuno riusciva a rintracciarla, si temette il peggio, poi per fortuna la polizia la ritrovò e fu portata in ospedale per dei controlli. Fasi di un’esistenza tormentata, segnata da una diagnosi di disturbo bipolare e dai racconti di abusi subiti da parte della madre morta nel 1986 in un incidente d’auto. Anche da molto altro, ma oggi la notizia è che Sinéad O’ Connor, che nel frattempo ha trovato conforto nella fede islamica, è tornata sulle scene: dopo una serie di date in Irlanda, in queste settimane sta girando l’Europa e a gennaio sarà in Italia, il 16 a Pordenone, il 18 a Parma, il 19 a Torino. «Riprendere a fare concerti è stato bellissimo», dice la cantante di Nothing Compares 2 U, classe 1966. «Prima del primo concerto in Irlanda avevo paura di dimenticarmi le parole delle canzoni, ma è andata bene e ora mi sto divertendo». 

Che cosa ti dà oggi la musica?È qualcosa di liberatorio, mi permette di tirar fuori tante emozioni diverse. Cantare dal vivo con la band, poi, è così bello. In quella dimensione c’è il divertimento, ma anche qualcosa di simile alla meditazione. Già, è un po’ come meditare: mentre canti non pensi a nient’altro e dato che mentre lo fai usi la respirazione alla fine ti ritrovi in uno stato di relax molto piacevole per almeno un’ora. Dopodiché torni a… a ciò che veramente sei.

Canti anche a casa, da sola, per i fatti tuoi?No, a dire il vero mai, probabilmente dovrei. Non mi capita molto spesso nemmeno di ascoltare dischi. In compenso ascolto canti induisti, buddisti, musulmani. 

So che in questa fase non vorresti parlare di religione, ma la fede è da sempre parte integrante della tua vita e del tuo percorso artistico.Ho studiato diverse religioni, dal Cattolicesimo all’Ebraismo all’Islam, e sì, la fede mi è tutt’oggi vicina, moltissimo. Specialmente quando canto: prima di salire sul palco prego, ciò che chiedo è prima di tutto il perdono, in secondo luogo che il pubblico a fine concerto si senta come dopo essere stato in chiesa.

Lo scorso 8 dicembre a Berlino hai dedicato una versione a cappella di I Am Stretched on Your Grave a tua mamma: il perdono è anche questo?Oh sì, chiunque ama la propria madre. Ho detto tante cose sulla mia, lo so, ma la amo lo stesso.

Stai lavorando a un nuovo disco di inediti?Ho iniziato a scrivere dei nuovi pezzi, ma da poco. Sai, ho dovuto rimettere insieme la mia vita dopo cinque anni davvero difficili, sono tornata a vivere nella mia casa in Irlanda e… adesso sono nuovamente pronta a lavorare su delle nuove canzoni. Il bello è che stare in tour mi ispira. Non tanto viaggiare quanto cantare, fare musica.

Dunque sei tornata a vivere nel tuo Paese?Sfortunatamente sì.

Perché sfortunatamente?Perché fa freddissimo!!! Sto morendo di freddo! (ride, nda).

Che cosa puoi dire del periodo complicato che ti sei lasciata alle spalle?È stato come un uragano. Nel 2015 mi sono dovuta sottoporre a un’isterectomia, mi hanno rimosso il mio sistema riproduttivo, le ovaie, l’utero, e questo ha provocato tutta una serie di conseguenze sul piano psicologico ed emotivo. Oggi sono grata di aver superato quel momento.

Nel 2014 avevi pubblicato il tuo decimo album I’m Not Bossy, I’m the Boss, così intitolato in omaggio a Ban Bossy, campagna contro le discriminazioni di genere. In copertina tu con una parrucca nero corvino e un abito in latex super attillato, stile Catwoman. Chi se l’aspettava? Sembravi particolarmente determinata, oltre che decisa a difendere i diritti delle donne.Lo sono ancora. Non è una bella epoca per le donne: stipendi più bassi, pensioni più basse… E non si capisce perché la gente non si aspetti che una donna si comporti come un capo, come colei che decide.

Quindi credi ancora in quelle istanze? Dopo la tua annunciata conversione all’Islam saranno in tanti a sostenere pregiudizialmente che tu abbia cambiato idea anche rispetto al femminismo.Vero, ma penso che vedendomi in concerto il pubblico possa comprendere chiaramente che sono la stessa persona di prima. Anzi, credo addirittura che quando canto la gente non si accorga nemmeno di ciò che indosso, non è un problema. 

Sul palco indossi l’abito tradizionale islamico e il velo o hijab.Non ho intenzione di mascherarmi, voglio essere ciò che sono. So benissimo che ci sono casi in cui le donne non sono trattate come dovrebbero nel mondo musulmano come ovunque. Il rispetto per la donna nell’Islam c’è, ma non da parte di alcuni e non in certi luoghi: semplicemente quelle persone e quei luoghi io non li frequento. Nessuno può trattarmi male solo per il fatto che sono una donna, la pensavo così prima e la penso così adesso. E non mi sento in obbligo di indossare l’hijab, secondo i testi sacri islamici non è qualcosa che le donne della mia età sono tenute a fare, tra l’altro. Ma mi piace, ho sempre amato avere la testa coperta anche in passato, mi fa stare bene. C’è anche un altro aspetto, ossia che quando diventi musulmano entri a fare parte di una famiglia in cui ci si rivolge gli uni agli altri come fratelli e sorelle: per strada ci si riconosce, ci si saluta. Da questo punto di vista l’abito tradizionale simboleggia il fatto che ti senti parte di quella famiglia, anche per questo lo indosso.

Ci sono tante famiglie quante sono le religioni, questo non divide le persone?No, perché l’esistenza di una famiglia non impedisce quella delle altre. 

Eppure si combattono guerre in nome della religione.Purtroppo e tristemente accade, è sempre successo.

Forse servirebbe un approccio diverso, spirituale, alla fede?È che molte persone pregano nel posto sbagliato, rivolgendosi al mondo terreno, e questo le allontana dal Signore. Non è nemmeno quel che la religione insegna: Gesù ha detto “non andare in chiesa, vai nella tua stanza e parla con Dio”. È questo che dovremmo fare, semplicemente pregare. Non recitare preghiere di altri, basta parlare. È questo il senso della preghiera: parlare, chiedere all’universo con il cuore.

Intanto so che stai scrivendo la tua autobiografia: che cosa ti ha spinto a farlo?Me l’hanno chiesto.

Ma hai accettato, no?Sì, mi hanno offerto dei soldi e dato che ne ho bisogno… No, ma sto scherzando, mi piace tanto scrivere e mi piacciono le persone che mi hanno chiesto di farlo. 

Sarà l’autobiografia di una sopravvissuta o di una soldatessa, per citare due termini che talvolta hai usato per definirti?Lo capirò una volta che avrò finito di scriverla. Però sento che la parola ‘sopravvissuta’ non è più adatta a descrivermi: non mi identifico più con tutto quello che ho passato, sono andata oltre. In qualche misura, invece, mi sento un po’ una soldatessa, ma la parola con cui mi identifico di più oggi è ‘sacerdotessa’ e in tal senso il messaggio che vorrei diffondere è che se si parla al Signore si può creare il mondo che si desidera.

All’anagrafe sei Sinéad Marie Bernadette O’Connor, nel 2017 eri ricomparsa online come Magda Davitt, nel 2018 come Shuhada’ Sadaqat. Come vuoi essere chiamata ora?Nella mia vita di tutti i giorni Shuhada’, ma per la mia carriera musicale è naturale che si usi il nome Sinéad O’Connor. A dire il vero non mi interessa granché, chiamarmi Shuhada’ Sadaqat è importante per me personalmente, per distaccarmi dall’idea del patriarcato secondo cui dovrei portare il cognome di un uomo, non importa si tratti di mio padre, anche se è adorabile, o di un marito. Non è giusto identificare nessuno come appartenente a qualcun altro.

Adesso che sei tornata a esibirti dal vivo qual è la parte più difficile da affrontare?A me piace stare in tour, ciò che non mi viene facile è occuparmi delle questioni domestiche, della casa, di tutto quel genere di faccende. E anche del lato del mio lavoro più strettamente legato al business. Sono aspetti da cui a volte mi sento sopraffatta.

E come madre come ti senti?Bene, sto facendo tutto il possibile al massimo delle mie possibilità. Sono preoccupata per i miei figli come tutti i genitori.

Stiamo vivendo tempi bui e la pervasività dei social media non aiuta ad avere uno sguardo lucido. Negli anni scorsi questi mezzi di comunicazione ti hanno creato qualche problema…Dietro all’utilizzo dei social c’è sempre la solitudine. Il mondo è pieno di persone sole. Se si parla di me posso dire che ho capito che non mi serve implorare aiuto sui social, ma non mi dispiace averlo fatto, perché ne avevo bisogno. Più in generale persino uno come Trump, che utilizza i social nel modo in cui sappiamo, lo fa per solitudine. Lui non se ne rende conto, ma è così, non c’è niente che possa renderti più solo che diventare un capo di Stato, un pontefice, un re o una regina.

Stai dicendo che dovremmo provare compassione per Donald Trump?Personalmente provo sempre un po’ di compassione per chi soffre di qualsivoglia malattia mentale e sono convinta che lui ne soffra. Ma poi ricordo ciò che ha fatto al confine tra Stati Uniti e Messico separando le famiglie, dividendo i bambini dai genitori, e allora la compassione scompare e tutto ciò che mi ritrovo a pensare è che Trump è l’incarnazione del male, un fascista.

C’è qualche personaggio pubblico che ritieni degno di essere un esempio?I miei modelli sono sempre stati musicisti. Uno è Bob Dylan, perché è rimasto fedele a se stesso sia spiritualmente, sia emotivamente, sia sotto il profilo artistico. Un altro è Howlin’ Wolf, il bluesman. 

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