Dibattito - Donne e islam: l’inferiorità non è un destino | Attualità
Attualità, 22/2019, 15/12/2019, pag. 650
Il processo di riconoscimento dei diritti femminili nella maggior parte degli ordinamenti confessionali può dirsi tutt’altro che compiuto. Come infatti viene dimostrato anche da recenti statistiche,1 le donne pur essendo religiosamente più attive occupano una posizione diversa e inferiore rispetto agli uomini.
Un’analisi superficiale di tali dati potrebbe indurre a considerare le religioni come intrinsecamente patriarcali e misogine. Al contrario, una lettura più attenta, che miri a liberare dai condizionamenti storici e sociali il messaggio divino, consente di confutare tale ipotesi. Nel momento della loro genesi, infatti, le confessioni religiose hanno promosso la pari dignità sociale e l’uguaglianza tra gli individui, come testimoniato dal ruolo svolto dalle donne nelle prime comunità di fedeli.
Seguendo tale impostazione, la subordinazione e l’inferiorizzazione della donna costituirebbero solo l’esito di un più ampio processo caratterizzato – prevalentemente anche se non esclusivamente – da due fattori: da un lato l’inculturazione, in quanto nel processo d’insediamento in nuovi territori le religioni hanno finito per assumerne abitudini e principi (tendenzialmente androcentrici); dall’altro la pratica esegetica. All’interno infatti di società patriarcali, l’interpretazione dei testi sacri è stata realizzata dagli uomini e per gli uomini, sia tacendo quelle disposizioni che stabilivano chiaramente un principio egualitario, sia interpretando le norme potenzialmente ambivalenti in senso più favorevole ai maschi.
Con riferimento ai diritti femminili, l’islam rappresenta certamente un caso peculiare per almeno due ragioni: innanzitutto la disparità di genere non si limita al profilo funzionale – come avviene ad esempio nella Chiesa cattolica – ma è una costante delle relazioni umane e, in modo particolare, del diritto di famiglia. In secondo luogo, la differenza di genere travalica la sfera religiosa per dispiegare i suoi effetti in ambito civile.
L’assenza di una chiara distinzione tra sfera spirituale e temporale ha consentito ai detentori del potere politico di veicolare un’interpretazione del messaggio divino in linea con le proprie finalità. In particolare, il richiamo al dato religioso è servito per giustificare il riconoscimento (o, viceversa, il diniego) di taluni diritti alle donne.
L’uso politico della religione, associato all’assenza di un’autorità centrale in grado di predisporre norme vincolanti per l’intera umma e alla naturale pluralità e flessibilità dell’islam, chiariscono come mai la condizione della donna musulmana vari sensibilmente da un paese all’altro e oscilli tra una posizione di totale subordinazione all’uomo, di cui il Regno saudita costituisce certamente l’emblema, e il riconoscimento di una pluralità di diritti, come nel caso della Tunisia.
Qui, il legislatore, nel tentativo di governare i cambiamenti evitando fratture sociali, ha avviato un percorso, lento e non sempre lineare, di riconoscimento dei diritti femminili, grazie a una rilettura dei testi sacri, alla luce dello spirito di giustizia ed equità indicati dal profeta Muhammad.
Una riforma interrotta
In effetti, l’islam ha predisposto una «riforma progressiva» e – come afferma Orsetta Giolo – ha gettato «le basi per la costruzione di relazioni umane fondate su di un minimum di giustizia tra i generi»,2 introducendo quelle modifiche che potevano essere facilmente accettate dai fedeli e individuando nell’equità e nell’uguaglianza i principi verso cui tendere e da cui lasciarsi orientare in futuro.
Solo dopo la morte del Profeta la lettura androcentrica del messaggio divino ha interrotto il processo di riforma e favorito il ripristino di regole preislamiche tese contemporaneamente al rafforzamento del dominio maschile e alla marginalizzazione della donna. In questo senso è emblematico il racconto della cacciata dal Paradiso terrestre: mentre per il Corano Adamo ed Eva sono egualmente corresponsabili (cf. sure 2,35-37; 7,22s; 20,115-123), la Sunna – definitivamente sistematizzata nei secoli successivi alla morte del Profeta – ripropone una visione negativa della donna, quale strumento delle mani di Satana per indurre l’uomo a disubbidire a Dio.
Posto che la salvezza ultraterrena è assicurata ai fedeli sulla base delle azioni da loro compiute nel corso della vita, senza distinzione di sesso (cf. Corano sure 4,32; 4,124; 9,71s; 16,97…), le differenze di genere si manifestano nell’ambito delle relazioni interpersonali e, in particolare, nel diritto di famiglia che, ancora oggi, costituisce il nocciolo duro del sistema giuridico islamico sia perché il Corano disciplina in maniera particolarmente dettagliata la materia – la quasi totalità dei versetti a contenuto giuridico concerne i rapporti familiari –, sia perché in tempi più recenti la famiglia ha rappresentato il valore rifugio dietro cui trincerarsi di fronte alle imposizioni politiche, economiche e culturali dei paesi colonizzatori.
Si è soliti annoverare tra le norme che assicurano una posizione di maggiore favore agli uomini la possibilità a essi riservata di contrarre un matrimonio poligamico o di ripudiare unilateralmente la sposa. In realtà questi (come altri) istituti dovrebbero essere letti alla luce dello spirito della riforma coranica poc’anzi richiamato e in chiave comparata rispetto all’epoca preislamica.
L’islam non è misogino
In tal modo, si scopre – come scrive Giorgio Vercellin – che il ripudio era talmente radicato nelle società preislamiche da costringere Muhammad ad avere un atteggiamento di rassegnato riconoscimento di tale istituto come male inevitabile.3 L’impossibilità di un suo superamento, perlomeno nelle immediate circostanze, aveva indotto il Profeta a mantenerlo, adattandolo alla nuova religione.
In questo senso depongono ad esempio la previsione di un tentativo di conciliazione tra i coniugi e l’introduzione di regole più rigide rispetto al passato, anche al fine di tutelare la posizione della moglie. Basti a tal proposito pensare all’obbligo imposto al marito di trattare con benevolenza le donne da cui si intende divorziare (cf. Corano, sure 2,229; 65,2), di reiterare la volontà di ripudiare la moglie tre volte a distanza di tempo cf. 2,229 e 231), la previsione di un dono consolatorio (cf. 2,229, 236s) e l’impossibilità di contrarre nuove nozze con la donna definitivamente ripudiata, salvo alcune eccezioni (cf. 2,230).
Ciononostante, dopo la morte del Profeta, i vincoli posti a tale istituto sono stati allentati in modo da consentire agli uomini d’accorpare la triplice manifestazione di volontà, rendendo il ripudio istantaneo, e di divorziare dalla moglie anche durante il periodo mestruale o subito dopo aver avuto rapporti sessuali.
Per ciò che concerne la poligamia va osservato come l’unico versetto a essa riferito sia stato rivelato dopo la celebre battaglia di Uhud, che aveva avuto un esito disastroso per i musulmani e reso orfani moltissimi ragazzi. E ciò, di per sé consentirebbe, almeno secondo alcuni commentatori, di limitare la poligamia alla presenza di orfani. E che il ricorso a tale istituto sia circoscritto è dimostrato anche dall’introduzione di un limite al numero di donne che è possibile sposare contemporaneamente e dall’obbligo imposto al marito di trattarle con equità (4,3).
La difficile attuabilità di tale ultima previsione unitamente agli altri versetti del Corano che individuano nella reciprocità (cf. 2,187) e nell’amore coniugale (cf. 30,21) i capisaldi dell’unione coniugale renderebbero manifesta la preferenza del Corano verso un regime matrimoniale monogamico.
In buona sostanza, non è l’islam a essere misogino ma è l’interpretazione maschilista e l’uso strumentale che della religione è stato fatto ad aver determinato l’attuale marginalizzazione e inferiorizzazione della donna. Il percorso verso una piena uguaglianza di genere, per quanto complesso, potrà essere realizzato attraverso una riscoperta del reale senso del messaggio divino.
Miriam Abu Salem
1 Pew Research Center, The gender gap in religion around the world. 2016, https://pewrsr.ch/1RxvF9C.
2 O. Giolo, Giudici, giustizia e diritto nella tradizione arabo-musulmana, Giappichelli, Torino 2005, 25.
3 G. Vercellin, Tra veli e turbanti. Rituali sociali e vita privata nei mondi dell’islam, Marsilio, Venezia 2000.