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Zehra Doğan: «I regimi temono l’arte perché svela i loro disegni»

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

«Le immagini dell’arte non forniscono armi alle lotte. Contribuiscono a disegnare configurazioni nuove del visibile, del dicibile e del pensabile e, di conseguenza, un nuovo paesaggio del possibile». Con questa affermazione, Jacques Rancière annodava le conclusioni del suo discorso in Lo spettatore emancipato: un continuo rimpallo fra arte, politica e realtà, per cui ogni potenziale cambiamento risiede innanzitutto nel “disegnare” nuove percezioni, nuove prospettive.

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Proprio come, a suo modo, ha fatto e non smette di fare Zehra Doğan, artista e giornalista nata a Diyarbakir.  Nel 2012 con altre compagne ha fondato e gestito l’agenzia di stampa Jinha, la prima composta da sole donne e attenta, nella propria lettura della realtà, alle dinamiche di genere (poi costretta a chiudere). A causa della “rivisitazione” di una foto in cui le truppe turche prendevano possesso della città di Nusaybin, al confine con la Siria, il 21 luglio 2016 è stata arrestata e imprigionata: per quasi tre anni ha dunque conosciuto la realtà del carcere, continuando però a produrre arte con mezzi “di fortuna” e riuscendo a far sì che le proprie opere venissero portate clandestinamente all’esterno. «Disegnare è stato per me una forma di resistenza ma anche di denuncia», dice Zehra. Abbiamo parlato con lei, per capire più a fondo come possano convivere arte e attivismo, informazione e lotta, anche e soprattutto sotto la morsa sempre più stretta del regime di Erdogan.

 

Cosa ti ha spinto a fondare l’agenzia di stampa Jinha?

In Turchia non c’erano agenzie di stampa o realtà giornalistiche composte da donne. Anche quelle notizie che riguardavano direttamente la vita delle donne, come i femminicidi per esempio, venivano coperte e raccontate da redazioni prevalentemente maschili e questo si rifletteva sul linguaggio utilizzato che era sempre inadeguato, morboso e vittimizzante, pure da parte di giornali e realtà “di sinistra”. Abbiamo deciso di fondare dunque un’agenzia che potesse opporsi a questa narrazione, cambiando il modo di raccontare i fatti e offrendone una prospettiva e una visione “femminile” che prima era assente. Inoltre, il nostro obiettivo era anche quello di dare voce a quelle donne che non ne avevano. Cercavamo di raggiungere quei luoghi in cui la parte femminile della società era maggiormente silenziata e non poteva far ascoltare il proprio punto di vista.

 

Come si inseriva in questo processo la tua attività artistica?

Per me un giornalista è un artista. Da una parte, ho sempre visto i giornali come “carta su cui disegnare delle narrazioni”. Dall’altra, dietro a ogni mio disegno c’è sempre una notizia, un fatto. In particolare, poi, mi è capitato di trovarmi di fronte a eventi per descrivere i quali non trovavo le parole, per cui gli strumenti “classici” del giornalismo non bastavano. Ecco che in questi momenti si faceva avanti allora la mia sensibilità artistica. Il mio disegnare era dunque dettato anche dalla volontà di creare un “archivio” di ciò che succedeva intorno a me, di mostrare e denunciare determinate cose. Una sovrapposizione continua fra arte e giornalismo, un’attività di arte-reportage.

 

Il carcere ha cambiato questo tuo approccio?

In prigione ho continuato a sentire il bisogno di fare arte, sia come forma di resistenza individuale che come modo concreto di far arrivare all’esterno informazioni sulle nostre condizioni e sulla nostra vita da detenute. Siccome non era possibile avere normali strumenti da disegno, ho imparato tecniche alternative: ho utilizzato la cenere, la terra, l’olio, i fondi di caffè e anche il sangue mestruale. Soprattutto quest’ultimo elemento mi sembrava fortemente simbolico: le mestruazioni sono considerate tabù da parte del potere maschile, sia statale che religioso. Una donna che ha le mestruazioni è vista come “sporca”, non avvicinabile. Usare il sangue del ciclo sui miei dipinti era dunque anche un modo per sfidare il maschio e lo Stato: la pensate così? Bene, allora il nostro sangue ve lo sbattiamo in faccia, lo mettiamo al centro del vostro sguardo e dei vostri pensieri.

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Il disegno per cui Zehra Doğan è stata arrestata

Perché ti hanno arrestato??

I regimi dittatoriali hanno sempre paura dell’arte. Andando a rappresentare con quella forma il massacro di Nusaybin, era come se in realtà stessi svelando il loro “disegno”, i piani criminali di Erdogan. Allo stesso tempo, però, hanno dimostrato di non capire l’arte fino in fondo. Forse, se avessero saputo prima quale tipo di sostegno avrei ricevuto (da parte di artisti famosi come Bansky, per esempio) a causa del mio incarceramento, non mi avrebbero arrestato. Hanno sottovaluto la potenza e la forza dell’arte, la sua capacità di raggiungere e toccare il maggior numero di persone.

 

In che modo l’identità curda influenza la tua arte?

La cultura del popolo a cui appartengo è certamente una delle sorgenti primarie della mia arte. Va detto che, a causa dell’oppressione che subiamo, non esiste una catalogazione accurata delle tradizioni, dei modelli d’espressione curdi. Non ci sono musei o quant’altro. Perciò, fare arte per me significa anche riprendere e recuperare dei motivi, delle forme tipiche della cultura curda. Racconto la realtà, ma – così facendo – attuo anche un’operazione di archivio: testimonio attraverso il disegno quelli che possono essere magari i nostri costumi, o i colori del mio popolo. Attraverso l’arte contemporanea, i punti più importanti del passato vengono trasmessi al futuro.

 

Qual è la tua opinione sull’attuale situazione dei curdi in Turchia?

Erdogan ha instaurato un regime di terrore e oppressione. Nonostante sia sempre più difficile anche solo esprimere le proprie opinioni, però, i curdi continuano a resistere, manifestano e rivendicano i propri diritti e la propria identità, sia dal punto di vista politico che culturale. Non dimentichiamo che l’opposizione a livello parlamentare arriva solo dal partito curdo o comunque da quelle realtà che hanno collaborato col popolo curdo. È grazie ai curdi e alla loro tenacia che le poche voci critiche riescono a farsi sentire. Insomma, se avverrà un cambiamento questo non potrà che partire dai curdi.

 

In copertina un muro disegnato da Bansky a New York per omaggiare Zehra e chiederne la liberazione.  

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