Caos India. Come si arriva alla legge che esclude gli islamici dalla cittadinanza
La legge sulla cittadinanza – Citizenship (Amendement) Act
A inizio dicembre il Parlamento Indiano ha approvato la nuova legge sulla cittadinanza per l’accoglienza delle «minoranze induiste, sikh, buddiste, jain, parsi e cristiane provenienti da Bangladesh, Pakistan e Afghanistan» arrivate prima del 2015. Nell’elenco delle minoranze protette non si fa il benché minimo accenno ai fedeli musulmani, poiché, a detta del BJP «queste non hanno bisogno di protezione in quanto costituiscono la maggioranza nei paesi di provenienza», escludendo così di fatto dalla protezione le minoranze esterne Hazaras, Baluchis e Ahmadiyyas, vittime di violente persecuzioni e mettendo a repentaglio la cittadinanza della minoranza più ampia del paese. I musulmani costituiscono il 14% della popolazione indiana.
Il voto parlamentare ha confermato la coerenza del razzismo istituzionale del Governo Modi e del Bjp, da tempo impegnati a dividere la popolazione sulla base di etnia, sesso, casta e religione, avanzando così nella missione di rinvigorire lo spirito nazionale forti del supporto solido degli hindu.
L’ordine razzista si esprime nelle forme sussidarie di presenza nel paese per vivere o lavorare, attraverso l’uso dell’Overseas Citizen of India (OCI) revocabile in caso di violazioni di leggi locali di qualsiasi gravità, ovvero, di come la cittadinanza diviene una questione di obbedienza.
A novembre è iniziato il censimento, volto ad accompagnare l’istituzione della legge sulla cittadinanza, National Population Register fatta tramite inchiesta porta a porta da parte di funzionari locali, la cui composizione presenta una forte maggioranza d’impiegati hindu. I funzionari sono qui impegnati a riconoscere e ascoltare le storie dei censiti per definirne le origini, elemento dirimente per la concessione della cittadinanza. Durante le inchieste porta a porta condotte dai funzionari del Ministero vengono raccolti dati su «religione, nucleo familiare, numero di elettrodomestici presenti in casa, motivazioni che hanno spinto le persone a migrare, origini della propria famiglia, sulla tradizione etnico-religiosa di provenienza e anche il numero di telefono cellulare».
In un paese la cui memoria storica è divisa da conflitti interni ed esterni, lo strumento si manifesta come tentativo di composizione di un preciso ordine razziale volto a consolidare il primato hindu a scapito delle minoranze etnico-religiose dell’India. Il progetto pilota del National Population Register è stato effettuato fra agosto e settembre nella regione di Tamil Nadu, territorio al sud del paese in cui sono situati siti d’estrazione di gas e carbone. La regione vive un aspro conflitto sulla difesa dei territori dall’estrattivismo di metano e carbone, dalla costruzione di centrali nucleari e di infrastrutture come oleodotti e metanodotti.
Il National Population Register prenderà corpo nel 2020 con l’inizio delle indagini e l’identificazione degli usual residents – persone presenti nel paese per più di sei mesi o che intendono restarci per più di 6 mesi – mentre il censimento partirà dal febbraio 2021.
Dall’università alla città
Subito dopo la ratifica del Citizenship (Amendement) Act hanno avuto luogo le prime manifestazioni d’opposizione. Nella città di Nuova Delhi, l’Università di Jamia Millia Islamia, frequentata perlopiù da studenti musulmani, ha fatto da epicentro delle proteste nella capitale. Nella stessa giornata la Aligarch Muslim University, situata a 130km dalla capitale, è stata attaccata dalle forze di polizia.
Nella giornata di domenica 15 dicembre circa in migliaia hanno manifestato nel centro città di Nuova Delhi. I manifestanti hanno prodotto un blocco stradale nel centro città a cui la polizia ha risposto con cariche violente e spari sulla folla. Decine di ragazzi sono stati arrestati con l’accusa di distruzione della proprietà privata e saccheggio. Durante le cariche violente della polizia il corteo è arretrato fino ad arrivare alla decisione di rifugiarsi in Università. Circa 600 studenti hanno cercato rifugio dalle violenze della polizia barricandosi nella Jamia Millia Islami University.
La promessa di difendere l’Università dall’arrivo di altri poliziotti è stata pagata a caro prezzo: nei video si nota come gli studenti abbiano subito un vero e proprio assedio da parte della polizia che ha lanciato prima decine di lacrimogeni e poi è entrata nell’università causando circa 200 feriti. Molti altri feriti non sono stati identificati, poiché coloro che si sono recati in Ospedale sono stati sottoposti a misure restrittive, processo o incarcerati. Il giorno successivo alcuni giornalisti di testate straniere sono riusciti a entrare nell’università. La situazione era drammatica.
Il pavimento e i muri cosparsi di sangue rappresentano i primi effetti del National Citizenship Act. L’odore acre dei lacrimogeni accompagna la traversata dei giornalisti fino alla biblioteca, ormai diventata una discarica di pezzi di carta.
Le prime risposte da parte dell’istituzione universitaria sono di condanna verso lo Stato. Il Vice Cancelliere della Jamia Millia Islamia, Najma Akhtar ha dichiarato che la polizia è entrata senza alcun permesso in Università ferendo più di 200 studenti e ha chiesto l’avvio di un’inchiesta governativa sulle violenze. Venerdì 20 dicembre la commissione nazionale sui diritti umani ha iniziato le sue indagini confermando le parole del vice-cancelliere e facendo emergere come i poliziotti abbiano impedito a molti studenti di ricevere visite mediche. Le parole di Siddiqui, studente ferito, sono parole di rabbia e speranza nella lotta: «la nostra fede è forte, continueremo a combattere».
Le proteste hanno attraversato i centri urbani caratterizzandosi per la centralità della componente studentesca e dei subalterni della metropoli. La conoscenza dell’ordinario corso delle cose ha prodotto una consapevolezza dei bersagli da colpire nello sciopero sociale. A Nuova Delhi i manifestanti sono riusciti a bloccare per circa due ore quattro stazioni centrali della metropolitana.
Nella sola giornata di martedì 17 dicembre ci sono stati 21 feriti a Nuova Delhi in seguito agli scontri fra polizia e manifestanti, 28 arresti nella regione dell’Uttar Pradesh per pubblicazione di post offensivi dopo gli scontri con la polizia e nella regione dell’Assam – epicentro delle proteste più violente – dove la polizia ha ucciso quattro persone. Il bilancio totale dei morti dichiarati al giorno d’oggi è di 25 persone. Molti sono i dispersi e altrettanti hanno fatto ritorno dall’ospedale da moribondi.
Nei telegiornali e nei media indiani risuonano forti le parole dei dirigenti della polizia che dichiarano di non aver sparato un colpo sulla folla. Nei video dei manifestanti e della stampa estera si vedono poliziotti, accompagnati da milizie parastatali, sparare ad altezza d’uomo nella folla. La linea del Governo è rimarcata da Modi in occasione di un comizio per la tornata elettorale nello Stato di Jharkhand. Il nemico interno è l’attentatore nascosto nella metropoli identificato negli «Urban naxals [termine usato dall’estrema destra per chiamare gli attivisti impegnati nella difesa delle minoranze] che sparano alle spalle degli studenti».
La frammentata opposizione – divisa su posizioni inconciliabili di natura regionalista, nazionalista e ideologica – ha dato come unica risposta effettiva l’incontro fra la leader dell’opposizione Sonia Gandhi e il Presidente dell’India Ram Nath Kovind, incontro in cui si è chiesto di far luce sulle violenze alla Jamia Millia Islamia e sul verificare le responsabilità politiche di Modi.
D’altra parte il Governo ha risposto tagliando le telecomunicazioni. Nello Stato dell’Uttar Pradesh la rete di telecomunicazioni e internet sono stati tagliati dall’inizio delle proteste fino alla sentenza della Corte Suprema di venerdì 20 dicembre. Proseguono i blocchi di rete ad intermittenza nello Stato di Assam, nel nord di Aligarh e in molti Stati del Nord-Est; si vive la stessa situazione in alcuni quartieri particolarmente caldi di Nuova Delhi e Mumbai.
La decisione non è nuova. Con l’invasione di Jammua e del Kashmir dell’agosto scorso, il Governo indiano ha tagliato l’accesso alla rete dal 4 agosto – giorno precedente all’invasione indiana – esercitando il potere sulle infrastrutture della comunicazione come fondamento dell’ordinamento nazionale. Infatti l’India è il paese in cui ci sono state più interruzioni dei servizi internet nel mondo. Il numero di interruzioni è salito esponenzialmente negli ultimi anni di governo del BJP e di Modi: nel 2018 internet è stato tagliato 134 volte e per quest’anno si contano 93 interruzioni di rete. L’uso indiscriminato di questo strumento è sempre stato l’anticamera delle invasioni militari dei territori ribelli.
L’ordine nazionale si nutre anche di questo: interruzioni di reti e monopolio dell’opinione pubblica con gli oltre 400 canali televisivi, dove le voci musulmane sono ridotte alla rappresentazione dell’islamico primitivo o discorsi di fedeltà alla Nazione. Vi sono spiragli di composizione e contaminazione delle rivolte. I cortei non si dividono fra pacifici e violenti: le piazze sono una manifestazione della complessità politica di territori socialmente stratificati.
Le componenti che emergono per costruzione di conflitto sono quelle degli studenti e delle donne. Nello Stato di Assam migliaia di donne hindu e musulmane si sono ritrovate in piazza per difendere i diritti di tutti i subalterni: «Questa legge danneggerà gli interessi dello stato, la nostra lingua, la nostra cultura e la nostra armonia comunitaria. Abbiamo protestato per molto tempo, ma il governo non ci ha ascoltato».
Nel tessuto urbano gli studenti si fanno carico dell’organizzazione e della protezione delle manifestazioni di piazza. Essi costruiscono nelle università avamposti di cooperazione ed autogestione. Da qui partono le richieste di democrazia e non di nazione senza democrazia. Le Università meticce tessono tele con i subordinati, organizzano la rabbia in piazza e non sono disposte a cedere fino a quando non verrà riconosciuto il proprio diritto d’esistere, con o senza registri nazionali.
Storia politica di un leader
Modi inizia la sua carriera politica tra le fila dell RSS-Rashtriya Swayamsevak Sangh – partito fondato nel 1925 sotto le influenze del nazismo tedesco e del fascismo italiano. Il partito da quell’anno ha avuto un’organizzazione sempre forte e strutturata – 57mila strutture e 600mila volontari addestrati e armati – e ha rivendicato un’India degli hindu.
I musulmani sono considerati da loro come gli «ebrei per la Germania e credono che i musulmani non hanno spazio nell’India Hindu». L’essere considerati come elementi estranei alla comunità è anche causa della conversione di molti all’Islam per sottrarsi al sistema di caste, considerato da RSS e BJP come elemento secolare della nazione.
Nell’ottobre del 2001 il BJP destituisce il suo presidente nello Stato del Gujarat. Alle elezioni del 2002 Modi diventa Presidente anche senza una maggioranza nell’Assemblea legislativa. Per consolidare il suo potere precario, Modi sfrutta l’evento del ritrovamento in treno di 59 hindu morti in condizioni misteriose che portarono a vendette organizzate contro i musulmani. Nei pogrom di Stato persero la vita circa 2500 musulmani, un prezzo più che sopportabile per un presidente nazionalista il cui unico fine era – ed è – quello di stringere a sé l’elettorato hindu. Il blocco si consolida, Modi viene rieletto e otterrà il mandato per tre volte di fila. Riguardo alle violenze nel Gujarat, Modi non si è espresso fino a un’intervista rilasciata nel 2014 dove ha detto «di essere dispiaciuto per aver visto un cane morire sotto le ruote della sua macchina».
Nel 2014 Modi lascerà la guida del Gujarat per approdare alla carica di Primo Ministro, con l’appoggio del BJP, complice anche una dinamica molto simile a quella dei pogrom in Gujarat nei distretti di Muzaffarnagar e nell’Uttar Pradesh. In queste elezioni l’RSS non investe nelle elezioni politiche: il discorso nazionalista ormai è tutto inglobato nel discorso del BJP.
Il blocco elettorale rappresentato da Modi è quello del nazionalismo hindu, di uomini d’affari e industriali, di liberal progressisti che vedono nella figura di Modi un compromesso fra il vecchio e il nuovo.
Nel 2016 sottopone a una prova di fedeltà il suo elettorato. L’operazione di demonetizzazione messa in atto dal Governo sancisce la messa fuori dal mercato delle banconote da 500 e 1000 rupie – 86% della moneta in circolazione – al fine di combattere la corruzione e stroncare gli approvvigionamenti monetari del terrorismo. La risposta del blocco elettorale hindu è di fedeltà all’idea di nazione del leader. Le conseguenze reali, misconosciute dal Governo, sono la perdita di lavoro per molti, la chiusura di piccole attività e la sussistenza di una fetta di popolazione povera che gravita su sistemi informali si scambio. Contemporaneamente a questi eventi il BJP diventa il partito più ricco del mondo registrando una crescita di ricchezza pari dell’81%, mentre gli altri partiti vengono portati alla bancarotta.
Alle elezioni del maggio 2019 il BJP ottiene la maggioranza dei seggi nella camera bassa ed è il primo presidente dal 1971 ad avere una maggioranza monopartitica. Il blocco di potere che si consolida attorno a Modi è formato da media, intelligence e forze armate. Diplomatici e ambasciatori sono obbligati a raggiungere la sede della RSS a Nagpur per rendere loro omaggio, consolidando così la posizione nazionalista dentro gli apparati propriamente statali e accreditando posizioni privilegiate a nazisti in doppio petto.
Lo Stato di Assam come esperimento sociale
Lo Stato di Assam è situato al Nord Est dell’India, al confine con il Bangladesh. La complessità dello Stato è lo specchio di una storia fatta d’invasioni, coloni, confini labili e migrazioni. Con il processo di colonizzazione dell’India da parte del Regno Unito s’è prodotta una profonda divisione nella società e dei legami con la terra. La proprietà, dapprima collettiva, è passata sotto regime di proprietà individuale e coloniale con l’uso della terra per coltivazioni da tè. La popolazione locale non era ben disposta a lavorare per il nuovo invasore, così gli inglesi hanno rafforzato le migrazioni interne di contadini musulmani verso le piantagioni dell’Assam, mutando di conseguenza la composizione etnico-religiosa dell’area.
Con le guerre fra India, Pakistan e Bangladesh – prima nel 1947 e poi nel 1971 – i confini dello Stato diventano sempre più fluidi, a questo segue un processo di mutamento dei paradigmi nazionali. Da questa realtà nasce la domanda di un Registro Nazionale dei Cittadini, strumento richiesto per dare una sintesi della complessità storico-sociale dello Stato. Nel 1951 nasce un movimento per la richiesta di un registro nazionale, alimentato dagli studenti nazionalisti fino al 1979, anno in cui il movimento – ora animato da nazionalisti induisti – si radicalizza e dirotta il suo discorso contro le minoranze bengalesi e musulmane.
Un esempio paradigmatico delle violenze contro i musulmani è il massacro di Nellie nel 1983, in cui sono stati uccisi circa 10mila musulmani.
Nel 1985 i leader degli studenti nazionalisti vincono le elezioni nello Stato di Assam e attuano un accordo con il Governo centrale, guidato allora dal Primo Ministro Rajiv Gandhi. L’accordo gioca tutto sul nazionalismo e sul sentimento identitario contro i migranti. Spinti dal dover rinsaldare la memoria nazionale nel mito della vittoria dell’India sul Pakistan del 1971, i nazionalisti ottengono la cancellazione dai registri anagrafici di persone emigrate dopo il conflitto o che non riescono a provare le proprie origini indiane.
I dissidenti politici sono respinti verso la frontiera e trattati secondo i canoni della legge sui migranti irregolari del 1983, il cui testo sottolinea come la memoria storica sia diventata un requisito di cittadinanza. Nella legge è prevista anche l’istituzione di Tribunali speciali per l’immigrazione, i cui poteri sono fortemente discrezionali. In uno Stato perennemente attraversato da migrazioni l’operato dei tribunali conferma lo stato di instabilità interna ed esterna dell’Assam.
I migranti riconosciuti come irregolari sono incarcerati in centri di detenzione e rimpatrio, situati per lo più sulle isole, senza ospedali, scuole o terre da coltivare. La detenzione coatta ricalca la distinzione fra potere dei militari hindu e subordinazione dei musulmani detenuti, sottoposti a stupri e vessazioni da parte dei soldati. L’attesa del giudizio del tribunale diviene nevrosi. La convocazione in tribunale – lontani a volte centinaia di chilometri – può avvenire in qualsiasi momento, per questo i migranti portano sempre con sé i documenti. Appena arrivata la convocazione bisogna ricomporre il nucleo familiare e raggiungere con tutti i mezzi – che non si possiedono – il Tribunale, pena la detenzione a vita in questi centri.
La sperimentazione del Registro Nazionale di Cittadinanza non è altro che uno strumento di lotta fra nazionalità, sul chi ha diritto o no di esistere nella nazione. Il 31 agosto 2019 1,9 milioni di persone scompaiono dai registri anagrafici dello Stato di Assam. Il numero è destinato a salire, poiché la legge di cittadinanza prevede la possibilità di mettere in discussione la cittadinanza di qualcuno anche da parte di sconosciuti. L’esclusione colpisce per lo più soggetti marginali come migranti, popolazioni tribali e Dalit – impuri, al di fuori del sistema delle caste – i cui nomi non sono presenti nei registri di proprietà, anagrafici, elettorali o scolastici Al giorno d’oggi sono state registrate circa 200mila obiezioni, il cui giudizio sarà in tutta probabilità positivo data la forte presenza di hindu della classe amministrativa e le fallacie dovute ad errori di trascrizione nell’anagrafe.
Il processo penale di primo grado porta i migranti a un pesante peggioramento delle condizioni di vita, quali stress psicologico, ansia e depressione e a un indebitamento per il sostentamento delle spese legali. Questo unitamente alla presenza sul territorio di circa 100 tribunali per l’immigrazione e l’imminente costruzione di altri 1000 si traduce in una dichiarazione di guerra ai non hindu.
Babri Majid. L’induizzazione della nazione
Nel novembre 2019 la Corte Suprema Indiana ha sentenziato sulla disputa religiosa del sito di Babri Majid, la cui proprietà è rivendicata da musulmani e induisti. Babri Majid era una moschea costruita sotto il regno di Babur, primo Re Mughal. Gli hindu nel 1949 rivendicavano il possesso del sito, dove secondo loro erano sepolte le spoglie delle divinità Rama, portando così al sigillo del sito da parte del tribunale che ha dichiarato il sito come proprietà contesa. La disputa continuerà poi negli anni a venire, entrambe le fazioni cercheranno di rivendicare la proprietà del sito nelle aule giudiziarie.
La questione diviene immediatamente politica per i gruppi hindu, i quali vedono nella sentenza del 1949 una prevaricazione delle proprie richieste di culto legittime.
Nel 1984 un comitato di hindu presenta il progetto di costruzione di un tempio hindu nel sito. La mozione troverà ampio eco politico nei partiti nazionalisti, che si impegnano in prima persona per la costruzione di un tempio Ram al posto della moschea.
Il 6 dicembre 1992, Il BJP, il VHP (Vishwa Hindu Parishad, partito d’estrema destra nazionalista) e vari gruppi hindu, convocano un raduno hindu nei pressi della moschea. Durante questa mobilitazione gli hindu decidono di farsi giustizia da sé imbracciando picconi e martelli. La moschea viene ridotta in polvere in nome del Dio Ram. La manifestazione non si ferma alla moschea. I fedeli hindu si dirigono verso la città di Ayodhya dove daranno vita a violenze generali ai danni della popolazione musulmana. In questa giornata circa 2000 musulmani persero la vita nel nome del Dio Ram e della nazione hindu.
Il 9 novembre 2019 arriva la sentenza della Corte Suprema indiana: Babri Majid è proprietà hindu. La corte ha disposto la proprietà della maggior parte dei terreni agli hindu e risarcito i musulmani con la concessione di 2 ettari di terreno situati in zone marginali rispetto a dov’era la moschea, la Corte ha poi dichiarato che la terra è una «restituzione per l’illegale distruzione della Moschea». Zarafab Jilani, rappresentante dell’Uttar Pradesh Sunni Central Waqf Board, esprime la voce di molti musulmani in India: «Questi 5 acri di terra non significano niente per noi. Noi stiamo esaminando il verdetto e qualunque strada legale aperta».
La risposta di Modi è stata conciliatoria nelle forme e non nella sostanza – di fatti Modi era presente il 6 dicembre 1992 – nella meschinità di un tweet è racchiusa la banalità del male «Qualunque punto di vista è stato dato con tempistiche adeguate e l’opportunità di esprimere diversi punti di vista. Questo verdetto farà crescere la fiducia nel processo giudiziario».
Nella notte l’entusiasmo degli hindu ha inondato le strade delle città dell’Uttar Pradesh. Fiaccolate, marce di commemorazione e manifestazioni spontanee hanno preso vita nei grandi centri. La possibilità che la gioia si tramutasse in violenze generalizzate è scampata nella notte del 9 novembre.
La sentenza della Corte Suprema conferma la non indipendenza dei poteri nello Stato indiano. Le parole del Ministro degli Interni Amid Shah fanno da eco alla sentenza. Durante un comizio a Pakur, nello Stato del Jharkhand – Stato in cui il BJP ha fatto da garante a 17 linciaggi e ha appena perso le elezioni statali – egli ha dichiarato che “la Corte Suprema ha dato il verdetto. Ora, entro quattro mesi, sarà costruito un tempio altissimo di Lord Ram ad Ayodhya».
L’ordine della nazionalità basata sull’appartenenza religiosa è stato imposto prima con sangue e polvere, poi è divenuto fondamento dell’ordinamento legislativo del paese. Il simbolo dello Stato è dato, ora non resta che rinsaldare il controllo reale sulla popolazione e sulle risorse del paese.
Continua…