200 mila coreane violentate da soldati giapponesi durante la guerra ma Tokyo nega ancora i risarcimenti
Tutto da rifare per risolvere uno dei più macroscopici casi di strupro sistematico durante la guerra. Riesplode la grande questione delle 200 mila ragazze coreane rapite e violentate per anni dai soldati giapponesi durante il secondo conflitto mondiale. La Corte costituzionale coreana ha respinto come non rispettoso dei diritti umani l'accordo politico che era stato raggiunto nel 2015 dalla Corea e dal Giappone per risolvere la questione delle cosiddette "donne di conforto", un orribile eufemismo usato per definire il raccapricciante fenomeno delle ragazze costrette con la forza dai militari a lavorare dei bordelli per “confortare” i soldati giapponesi.
APPROFONDIMENTI
Ad oggi il numero preciso delle “donne di conforto” non si conosce ma la stima elaborata in questi anni da diverse associazioni umanitarie si aggira attorno alle 200 mila persone. Le donne (dagli 11 anni ai 25 anni) erano costrette ad avere anche 70 rapporti al giorno, dietro violenze, botte, umiliazioni. Le ragazze che riuscivano a fuggire si suicidavano. A fine guerra un buon numero di sopravvissute venne internato in case psichiatriche perché non riuscì più a riprendersi.
La Corte costituzionale coreana era stata chiamata a pronunciarsi quattro anni fa dopo che un gruppo di 29 sopravvissute aveva presentato una petizione per mettere in discussione la costituzionalità dell'accordo. L'intesa era stata firmata dal primo ministro giapponese, Shinzo Abe e il presidente Park Geun Hye. Ora tutto è da rifare e le vittime chiedono maggiore equità. Ancora oggi sui libri di scuola giapponesi la questione delle donne di conforto viene liquidata come una sorta di prostituzione volontaria da parte di donne lautamente pagate per i loro servizi. Cosa che non corrisponde alla verità.
Il Giappone nell'accordo aveva riconosciuto la sua responsabilità promettendo di istituire un fondo da 1 miliardo di yen per assistere le vittime. Successivamente ha poi rifiutato la richiesta di un risarcimento maggiore, sostenendo che la controversia era già stata risolta nel 1965 quando i legami diplomatici furono normalizzati tra i due paesi e più di 800 milioni di dolalri in aiuti economici e prestiti furono concessi alla Corea del Sud.
Nel 2014 quando Papa Francesco andò in Corea volle includere tra i suoi appuntamenti istituzionali un incontro con alcune sopravvissute. Nel viaggio di ritorno che lo riportava a Roma Francesco ha ricordato la loro via crucis, portando sotto i riflettori una vicenda che fino a quel momento era stata relegata tra le pieghe della diplomazia. «Con l’invasione queste ragazze sono state portate via, nelle caserme, per essesre sfruttare. Ma loro non hanno perso la dignità».
Già da prima dello scoppio della seconda guerra mondiale la Corea del Sud era occupata dal Giappone. Per dare incoraggiamento ai soldati, i vertici dell’esercito giapponese decisero di creare delle “comfort station”, luoghi sicuri in cui «donne volontariamente arruolatesi avrebbero potuto fornire conforto ai soldati». Questa era l’idea estratta dai documenti ufficiali dell'epoca. Si parlava di conforto, di volontarie, di protezione. Ma la vita delle ragazze rapite con l'inganno o la violenza coincideva con l'inferno. La loro prigione era costituita da piccole costruzioni in legno, due metri per tre, usate per i rapporti sessuali. Le ragazze venivano quotidianamente violentate a ripetizione dalla lunga fila di soldati che sostava fuori, in coda, in attesa del proprio turno per essere “confortati”.
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