La storia delle suffragette italiane, donne visionarie che hanno lottato per tutti noi
Il 28 dicembre 1899 stava per spegnersi un secolo che ne lasciava presagire uno molto più impetuoso e innovatore. Quel giorno divenne memorabile per un gruppo di donne milanesi intenzionate a segnare il futuro: le fondatrici dell’Unione Femminile.
Erano poche, appena una decina, ma erano donne nuove e pioniere, che progettavano di sfidare gli schemi patriarcali che le inchiodavano a posizioni passive e subalterne e di costruire diritti per chi ne era senza. Per realizzare la missione avevano bisogno di raccogliere in un’unica sede le associazioni di donne già operative a Milano: da qui l’idea dell’Unione Femminile.
Oggi, a 120 anni da quel giorno, qualche milanese infreddolito butta lo sguardo tra i cortili di corso di Porta Nuova, ora sovrastati dai grattacieli degli architetti star, alla ricerca della sede – tutt’ora aperta e viva – che accolse quelle donne coraggiose.
Si chiamavano Ersilia Majno Bronzini, Ada Negri Garlanda, Carolina Ponzio, Irma Melany Scodnik… Venivano dalla borghesia laica e progressista o militavano nel partito socialista, erano colte e preparate, ma vivevano anche loro sulla propria pelle quel non essere abbastanza per godere di diritti scontati per i maschi: prima che cittadine erano mogli, soggette dunque all’autorizzazione scritta del marito per compiere atti giuridici altrimenti a loro interdetti.
Fondare quell’unione richiese che, sì, ci fossero con loro mariti facilitatori e complici: così, dei 14 firmatari dell’Unione Femminile tre erano maschi (l’istituto dell’autorizzazione maritale venne abolito solo nel 1919).
In due anni, tra le iscritte c’erano già 250 donne a titolo individuale e diverse associazioni con migliaia di lavoratrici. Entro pochi anni, sbocciarono le sezioni di Roma, Firenze, Torino, Venezia. Poi Udine, Cagliari, Catania… E nel 1905 l’Unione diventò grande quanto il Paese trasformandosi nell’Unione Femminile Nazionale.
«Lo scopo era realizzare la missione di “rigenerazione sociale” e “l’elevazione materiale e morale delle donne”», sintetizza Stefania Bartoloni, docente di Storia contemporanea e Storia delle donne e di genere all’Università Roma Tre, e autrice dell’affascinante saggio Attraversando il tempo, che ricostruisce l’avventura di questa creatura così tenace e longeva.
All’alba del nuovo secolo le unioniste si compattarono sulla campagna per il divorzio e sulla legge per riconoscere e legittimare i figli nati fuori dal matrimonio. In una società che costringeva i bambini a lavorare e che non aveva cura dei ragazzi salvo punirli, se sbagliavano, come fossero grandi, si batterono per un sistema penale differenziato verso i minori e per una moderna “scuola integrale dell’obbligo”, attrezzata cioè di aiuti e servizi collaterali affinché anche i più poveri potessero frequentarla.
Temi sociali ancora irrisolti
In una realtà urbana in cui le lavoratrici erano, nella maggior parte dei casi, senza diritti e sfruttate, si batterono perché le donne potessero accedere all’istruzione professionale, ricevessero un sussidio prima e dopo il parto grazie all’istituzione delle Casse di Maternità e perché, a parità di lavoro, ricevessero un salario pari a quello degli uomini, questione che, 120 anni dopo, è ancora aperta nelle aziende di tutto il mondo.
Erano così, le unioniste, visionarie e concrete, idealiste ma appassionatamente vicine a chi non aveva tutela e dunque capaci di imboccare la strada di un femminismo che non sarà mai più così pragmatico.
Nel 1902 supportano lo sciopero delle piscinine, le bambine che lavorano duro nelle sartorie in cambio di poche monetine, e aprono l’Asilo Mariuccia, per mettere al sicuro le ragazze che vengono dalle campagne con il sogno di un lavoro da domestiche, prima che la tratta delle bianche le intercetti e ne faccia prostitute per il mercato sessuale urbano.
10mila firme per il voto alle donne
Dopo che l’onda lunga delle potenti dimostrazioni organizzate per le strade del Regno Unito dalle suffragette per ottenere il diritto di voto, allora negato alle donne, dilaga agli altri Paesi, l’Unione scrive una petizione – è il 1905 – che verrà firmata da 10mila donne, non prima di aver inviato 500 questionari a uomini e donne della politica e della cultura per chiedere se siano d’accordo sull’allargamento del voto alle donne.
La maggioranza dice sì, ma a restituire il questionario sono solo 53 uomini e 87 donne: a motivare i contrari o i tiepidi c’è anche la considerazione che le donne siano emotivamente troppo instabili per decidere gli assetti politici del Paese.
Un professore dell’Università di Siena scrive che «poiché credo che la donna debba sempre essere donna, sono anche d’opinione che la partecipazione alla vita pubblica non le si confaccia, perché servirebbe a snaturarla, aiutando la formazione di quel tipo antipatico e pervertito che è conosciuto sotto il nome di terzo sesso».
E Neera, scrittrice in voga, si dice indifferente e scrive che, in fondo, votando non si raggiunge maggiore felicità. Serviranno ancora quarant’anni perché le donne possano votare.
Nelle fotografie e nei manifesti d’epoca che oggi raccontano, in mostre itineranti, l’avventura lunga 120 anni dell’Unione Femminile Nazionale, brilla lo spirito di sorellanza di quelle pioniere che, quando scoppiò la prima guerra mondiale, misero a disposizione la loro rodatissima macchina organizzativa: a Milano più di mille operaie lavorarono per produrre indumenti militari da mandare al fronte e ulteriori 500 operaie e socie confezionarono 260mila maschere antigas, ricevendo salari più alti di quelli pagati dagli imprenditori.
Aiuto alle profughe di guerra
Poi arrivò il Fascismo, che nel 1938 impose lo scioglimento dell’Unione. Quindi i bombardamenti su Milano, che ne devastarono in parte anche la sede. Eppure le eredi delle pioniere che il 28 dicembre 1899 misero nero su bianco il progetto di una società nuova non si lasciarono fermare e, a guerra finita, prepararono il soccorso di quanti tornavano dai campi di concentramento.
Tra i tanti convogli zeppi di gente sfinita e ammalata ne giunse uno con bambini e donne che, testimonia Stefania Bartoloni, sfuggivano lo sguardo di quante erano lì proprio per accoglierli: «Si trattava di mamme con i figli nati in Germania da italiani, in qualche caso da tedeschi, che non potevano rientrare nella casa paterna e rifiutavano di affidare il figlio al brefotrofio. Dopo due anni di filo spinato aborrivano l’idea di entrare in un istituto, portare una divisa, vivere in una camerata».
Per loro fu scelto di aprire una casa, provvisoriamente dentro Palazzo Sormani, che chiamarono il Villaggio della Madre e del Fanciullo, istituzione che tuttora a Milano è casa per quante, spesso con i figli piccoli, sono in fuga da violenze e degrado.
La biblioteca in rete
Nel 1950 la sede dell’Unione Nazionale Femminile rinasce affacciata su un cortile fitto di verde e su una Milano che corre incontro alla modernità. Una nuova generazione di unioniste punta a formare le cittadine di un’acerba Repubblica Italiana e a mobilitarsi ancora per difendere vecchi diritti e promuovere aspirazioni emergenti.
Gli obiettivi sono come sempre pragmatici – come la lotta ai licenziamenti conseguenti alle nozze -, ma l’Unione è anche a fianco di nuove organizzazioni femministe e di quante si battono e si batteranno nei decenni successivi per la riforma del diritto di famiglia, il divorzio, i consultori laici (solo negli anni Settanta verrà abolito l’articolo del Codice Rocco che vieta l’uso dei contraccettivi in nome della difesa della razza), la depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza.
Oggi la sede milanese coordina importanti studi sui movimenti e le donne del Novecento e nelle sue sale si tengono convegni che li divulgano, incontri e concerti. Associazioni di donne così longeve e vitali sono, nel mondo, rarissime. La biblioteca dell’Unione ha, anche lei, più di un secolo di vita: in rete con il Sistema bibliotecario nazionale recupera i fondi d’archivio e continua il racconto sulle donne.