Michael Moore: "L'America può cambiare se impara dall'Europa" - Cinema - Spettacoli
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- Where to invade next
- Protagonisti:
- Michael Moore
TORONTO - Non è Jake Gyllenhaal la star più attesa del Toronto International Film Festival (è lui ad aver inaugurato questa edizione con Demolition di Jean-Marc Vallée) ma il documentarista d'assalto Michael Moore, che dopo Roger&Me, Fahrenheit 9/11 e Sicko torna con un progetto ultra-segreto (almeno fino a oggi) dal titolo Where to invade next. Accolto al Princess of Wales Theater da una clamorosa standing ovation, Moore si presenta con un paio di jeans scuciti, scarpe da ginnastica, maglione nero e un cappello militare in testa. Sotto quel cappello - dopo l'11 settembre, la guerra in Iraq, il controllo delle armi e la sanità - c'è qualcosa di nuovo da revisionare in America: il Pentagono. Sei anni di silenzio dopo Capitalism: a love story, elezioni alle porte: il regista premio Oscar riunisce in una piccola troupe il suo A-team, tra cui i produttori Carl Deal e Tia Lessin, e ci consegna un altro doc provocatorio: "Ma perché continua a far le pulci al paese che ama?", gli domandiamo. "Proprio perché lo amo!" risponde con un sorriso.
"Where to invade next" è il nuovo lavoro che il documentarista ha presentato al Toronto Film Festival. Storia delle invasioni da parte degli Stati Uniti e viaggio nei paesi europei "che sono molto più avanti di noi". Compratori in fila fin dall'alba, Netflix in testa / LEGGI L'ARTICOLO
Where to invade next mette a fuoco la lunga storia delle invasioni - accadute e potenziali - da parte degli Stati Uniti, i paesi sotto assedio, l'agenda politica, e rilancia sardonico: "E se l'America facesse ancora del suo meglio, cioè del suo peggio, per invadere altre nazioni?". L'idea è quella di immaginare un piano d'attacco su vasta scala, a metà tra materiale d'archivio e finzione: all'inizio, il filmmaker Moore è convocato d'urgenza dai capi della difesa, molto frustrati per aver perso ogni battaglia combattuta dopo la Seconda guerra mondiale. Corea, Vietnam, Libano, Iraq, Afghanistan, Siria, Libia, Yeman, e ancora Iraq. "A chi facciamo la guerra adesso?". Moore ha un'intuizione: "Da qui in poi ci penso io". Medio Oriente? Asia? Macché. L'invasione comincia dall'Europa. Prima fermata: Italia. Anche se si tratta di un'invasione diversa, più una perlustrazione rigorosa, un'indagine prima di colpire. Così, una giovane coppia spiega a Moore che nel nostro paese la gente gode in media di 30-35 giorni di vacanze retribuite l'anno, escluse le festività, i cinque mesi di maternità e i quindici giorni di nozze concessi. "Com'è possibile?" chiede il regista, prima nel film e direttamente a noi quando lo incontriamo. La risposta, in Where to invade next, gliela dà l'amministratore delegato di Ducati, secondo il quale non esiste contraddizione tra i profitti di una società e il benessere dei lavoratori. Più vacanze più produttività. Da qui lo sconcerto di Moore sullo stato finanziario dell'Italia: "Ma non c'era la crisi da voi?".Le visite successive seguono il documentarista in Francia, in un piccolo villaggio della Normandia, in Finlandia, Slovenia, Germania, in Islanda, dove è ambientato il segmento finale. Ovunque Moore metta piede, trova sorprese - e contraddizioni. La Slovenia, per esempio, ha un sistema universitario gratuito in grado di agevolare anche l'ingresso agli studenti stranieri. Piccoli appunti per migliorare un paese, l'America, che si crede più avanti del resto del mondo. E ancora, gli impiegati tedeschi del Faber-Castell - l'azienda che produce matite, diffusa in oltre cento paesi - lavorano 36 ore a settimana per un salario che corrisponde a 40 ore e sono spediti regolarmente nelle spa per rilassarsi, se sotto stress. "Volevo girare un film dalla parte delle persone - ci dice Moore - invadiamo i territori che non conosciamo e crediamo che i nostri sistemi di valori siano più efficienti degli altri. Non è così. La ragione per cui nascono certe guerre è proprio la disinformazione, il non aver mai parlato con la gente. In pochi sanno, ad esempio, che in Islanda le donne hanno raggiunto la vera parità nella vita pubblica, sul lavoro, negli affari. Sono molto più avanti di noi. Questo per dire che le rivoluzioni accadono in brevissimo tempo e sta ai media e ai politici intercettarle, raccontarle agli altri paesi per infondere ottimismo".
Ad aiutare Moore nella realizzazione del film, non ci sono grandi studios: "Volevo solo salire su un furgone, con una mini-crew, e prendere più testimonianze possibili dei cittadini del mondo, soprattutto in Europa. Raccontare le loro vite incredibili e far sì che, alla fine, soltanto io avessi il controllo delle dichiarazioni raccolte. L'unica arma che ha un cittadino come me per continuare ad amare il proprio paese è dire ai potenti della Terra: fermatevi, state commettendo un grosso errore. E' quello che cerco di fare con il mio cinema. Tu andresti mai su un'auto sparata a razzo verso la direzione sbagliata? Diresti al tuo amico che guida la macchina di rallentare e cambiare strada? Io sì. Con i miei documentari cerco di spiegare gentilmente a chi governa: no, non vi seguiamo. Non ci uniremo alle vostre sporche guerre. Che ne dite invece di deporre le armi e garantire a tutti la sanità?".
A Toronto l'effetto Where to invade next è massimo: la scorsa notte distributori di tutto il mondo si sono messi in fila - Netflix in testa - fino alle 4 del mattino pur di acquistare il film di Moore. Con i 119.2 milioni di dollari di Fahrenheit 9/11 resta il documentarista che ha incassato di più nella storia del cinema. "Quest'ultimo film io lo chiamo Mike's Happy Movie, perché mi sono stancato di sbirciare solo tra i problemi degli Stati Uniti. E' tempo di dare soluzioni, dall'educazione alle infrastrutture. Dopo aver incontrato politici, leader e lavoratori per il mio ultimo progetto, sento che un reale cambiamento è in atto. Non solo nell'America che ha appena attraversato Occupy Wall Street, Ferguson, le proteste per la morte di Michael Brown. Ma ovunque. Siamo pronti a guardare anche ai progressi e alle conquiste di altre terre, dalle scuole in Slovenia ai diritti delle donne in Tunisia. Il cinema non serve? Credo che i discorsi sulla parità tenuti da Patricia Arquette durante la notte degli Oscar e da Meryl Streep abbiano dato una scossa al Congresso. Quindi, avanti tutta col cinema".
di ALESSANDRA BORELLA