Le donne, i diritti, l’ONU: dove stiamo sbagliando
Andrea Morreale
[17 Oct 2015 | 0 Comments | 126 views]
Si celebra in questi giorni al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite il quindicesimo anniversario della risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1325 sui diriritti delle donne e la loro tutela nelle aree di conflitto: L'ONU promuove uno studio sui progressi fatti, ma i risultati sperati sembrano ancora molto lontani
Riunione del Consiglio di Sicurezza sulla risoluzione 1325 (UN Photo/Cia Pak)
Si celebra in questi giorni il quindicesimo anniversario della risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, su “Women Peace and Security” volta a dare maggior rilevanza alle donne, alle loro richieste ed ai loro diritti nelle zone di conflitto o in fase di pacificazione. Nonostante la risoluzione in se segni un punto di svolta nella giurisprudenza internazionale, essendo stata più volte citata in numerose occasioni, dai pronunciamenti della corte penale internazionale alle assemblee costituenti elette dopo la primavera araba di pochi anni fa, si possono scorgere i limiti più evidenti del testo, a partire dalla sua (difficilissima) applicazione.
Il Consiglio di sicurezza si è riunito sotto la presidenza di Mariano Rajoy, premier spagnolo, per discuterere l'avanzamento delle misure volte a tutelare i diritti delle donne nei singoli stati del mondo.
Per celebrare la ricorrenza della risoluzione e per verificarne l`applicazione, si è svolto un sondaggio, i cui dati sono poi confluiti in rapporto fortemente voluto dal segretario generale Ban Ki-moon. Nonostante i toni di apprezzamento della risoluzione non vengano solo dai paesi promotori (significativi i discorsi di attiviste di NGO africane ed asiatiche, che hanno ricordato come il riferimento alle norme della 1325 siano stare utili per mobilitare i governi in Paesi come Nepal e Namibia, per approvare leggi che diversamente non avrebbero ottenuto molta attenzione da parte dei governanti locali), i risultati generali sembrano sconfortanti: nonostante le donne abbiano ricoperto ruoli di rilievo nei recenti negoziati per la pacificazione di filippine e colombia, figure femminili di primo piano non sono coinvolte solo in pochissimi paesi durante le fasi critiche della discussione di leggi e trattati di rilevanza nazionale o internazionale.
Gli effetti di questa mancanza, che in un primo momento può sembrare trascurabile (d'altronde, si dirà, meglio una pace segoziata da soli uomini che nessuna pace, o un processo di sviluppo nazionale rapido e sicuro piuttosto che uno rallentato dal mantenimento di “quote rosa” tra le file dei mediatori) sono in realtà molto piu gravi del previsto. Per fare qualche esempio: Nonostante gli accordi di pace (siano essi armistizi, tregue o, più raramente, trattati di pace veri e propri) includano sempre tutele per i civili coinvolti nei conflitti, solo alcuni tra gli accordi stilati sotto l’egida delle Nazioni Unite negli ultimi anni prevedeva la possibilità per donne e bambine vittime di violenza durante i conflitti di ottenere giustizia presso i tribunali del proprio paese o di altri. Come ha ricordato Giovanna Martelli, consigliere del premier Matteo Renzi sulle pari opportunità: "la partecipazione delle donne nelle fasi negoziali diviene essenziale per garantire un intervento adeguato nelle fasi successive ad ogni conflitto, e tutti gli sforzi possibili devono essere intrapresi per garantire che la presenza femminile non risulti irrilevante durante le discussioni".
Anche sul piano dei paesi non in conflitto però, la situazione dell'empowerment femminile non è rosea: Pochissime delle leggi votate dai parlamenti degli stati che ancora oggi necessitano del supporto delle nazioni unite, sia esso finanziario, logistico o militare, riguardano il fattore chiave del raggiungimento della parità dei diritti tra uomo e donna, nonostante il richiamo all’eguaglianza di genere sia stato anche inserito tra i goal 2015-2030 recentemente lanciati. In molti paesi, anche tra quelli che siedono nella commisione ONU sui diritti umani, le donne sono ancora soggette per legge a trattamenti diversi da quegli degli uomini, sul lavoro come in casa o a scuola (sempre ammesso che sia loro consentito frequentare delle scuole...).
Nonostante poi la situazione dei paesi occidentali sia sostanzialmente “idialliaca” rispetto a molti altri nelle aree piu povere del mondo, basta ricordare che in Italia le donne arrivano a guadagnare anche il 50% degli uomini a parita di occupazione per dimostrare come l’assenza di figure femminili tra i policy makers sia di per se sufficente a far calare l’attenzione sui temi legati al riconoscimento, diretto o indiretto, dei diritti di donne e bambine. Se si vuole cercare un responsabile per la condizione delle donne nei paesi più svantaggiati, la situazione si complica. Di certo non si può far pesare eccessivamente ai governi locali, spesso instabili e divisi tra troppe emergenze, il non porre troppo l’accento sulla condizione delle donne, impossibile prendersela con la popolazione locale: in paesi in cui le donne non hanno mai votato, quasi mai studiato e storicamente ricoprono ruoli subalterni, come ci si può aspettare che da sole riescano ad organizzarsi e far valere i propri diritti?
E' in questi campi che le Nazioni Unite dovrebbero intervenire con più vigore, correlando gli aiuti e il riconoscimento di determinati ruoli agli stati membri solo a patto che essi garantiscano un determinato livello di diritti alla propria popolazione, incluso il riconoscimento della condizione della donna quale membro a pieno titolo della società. Quale organismo poi, potrebbe ottenere tali risultati meglio del Consiglio di Sicurezza, che ha il potere di commutare sanzioni agli stati membri che non seguono i dettami previsti dal diritto internazionale?
Sebbene sensata, la speranza resta utopica: un intervento diretto delle Nazioni Unite negli affari interni dei propri Stati membri romperebbe il delicatissimo equilibrio di alleanze e giochi di potere che regolano il funzionamento dell'ONU da sempre.