Islam e diritti delle donne. Potranno cambiare loro, come siamo cambiati noi
Le violenze, fisiche e psicologiche, subite nel cuore dell'Europa da donne aggredite e molestate in quanto donne, ad opera di una masnada di teppisti sessisti, in prevalenza di origine araba e islamica, vanno condannate e colpite, come si dice, "senza se e senza ma". E vanno anche valutate e fronteggiate nella loro valenza minacciosamente destabilizzante di quelli che abbiamo acquisito come i valori fondanti e non rinunciabili della nostra identità europea e occidentale.
La fine di ogni discriminazione di genere, dentro e fuori dalla famiglia, accanto all'ostracismo per l'antisemitismo e il razzismo in ogni sua forma, sta nel cuore dei valori della società aperta, libera e democratica, che oggi sentiamo assediata da altre culture, “antropologicamente” ostili al nostro modello di vita e di convivenza e alla nostra stessa idea dell’umanità nelle sue dimensioni più intimamente costitutive, a partire da quella sessuale o religiosa. Nella società aperta, tutte le identità e le scelte sono meritevoli di identico rispetto, in quanto ugualmente rispettose delle scelte e delle identità altrui e della libertà di tutti. Che si parli della fede o di altre scelte personali, l’Occidente unisce il massimo del pluralismo morale, al massimo dell’unità civile attorno alla cultura dei diritti e della dignità umana.
Per organizzarne al meglio la difesa, però, dobbiamo innanzitutto comprendere la novità di questo modello e dunque la fragilità di queste conquiste di civiltà, che pure già consideriamo irrinunciabili. Quello che chiamiamo Occidente – la sua cultura, il suo costume civile, i suoi diritti – non è un modello archetipo o ancestrale, che si trascina nei secoli identico a se stesso. È in gran parte un’acquisizione recente.
L'antisemitismo e il razzismo (schiavista e poi colonialista) sono stati la “norma” nell'Europa cristiana fino a quasi due secoli dopo l'Illuminismo, cioè fino a una manciata di anni fa. La prima generazione a esserne immune – o, per meglio dire, a esserne stata culturalmente vaccinata, ma non sempre “guarita” – sono i sessantenni di oggi; ma non i loro genitori, ad esempio.
Le "nostre" guerre intra-religiose, ingiuste, cruente e inumane (le streghe, donne, bruciate per eresia o stregoneria, insieme a tanti omosessuali), sono lontane quasi quattro secoli: troppo, probabilmente, per servire come termine di paragone della barbarie che sta dilaniando l'Islam e dal cui contagio dobbiamo difenderci con risoluta fermezza.
Ma il nostro cammino verso il tabù sociale della discriminazione femminile si è concluso (ammettendo che sia davvero del tutto alle nostre spalle) solo ieri. In Italia abbiamo conquistato il divorzio negli anni settanta in uno scontro politico e religioso epocale, con anatemi e scomuniche socialmente pesanti, anche se incruente.
All’inizio del secolo scorso le donne coniugate non avevano una propria autonoma capacità giuridica. Hanno iniziato a votare nel secondo dopoguerra. Hanno acquisito una piena parità nella famiglia, uscendo dalla subordinazione al marito, solo quarant’anni fa, qualche anno dopo la legge sul divorzio e solo grazie a essa. Il reato di adulterio – riservato sessisticamente alle mogli e non ai mariti – fu cancellato alla fine degli anni sessanta e il delitto d'onore (nei confronti del coniuge, ma anche della figlia e della sorella) rimase nell'ordinamento fino ai primi anni ottanta.
Proprio il fatto che quelle sulla condizione femminile (come la fine della guerra in Europa o dell'antisemitismo o del razzismo colonialista) siano acquisizioni recentissime ci deve rendere particolarmente intransigenti nella loro difesa come valore assoluto della convivenza in Europa e quindi – mutuiamo quest'espressione dal lessico ecclesiastico – non negoziabile. Ci deve però, per le stesse ragioni, far comprendere la necessità di approvare una normativa che dia piena cittadinanza alle persone omosessuali anche nella loro dimensione di vita di coppia e dunque familiare, in continuità e completamento con la trasformazione da società maschilista e patriarcale, fondata sulla discriminazione di genere, a quella paritaria, fondata sulle libere scelte degli individui e sul rispetto della loro identità, culturale o “naturale”, a partire da quella sessuale.
Alla difesa assoluta, anche con i mezzi della coercizione penale, della condizione femminile come acquisizione irrinunciabile al pari delle libertà politiche, di credo e di parola, non è contraddittorio accompagnare uno sforzo intelligente di integrazione. Nessuno può dire in modo ideologico che funzionerà.
Le differenze religiose e nella lettera delle scritture sacre tra cristianesimo e Islam non sfuggono a nessuno. Ma non può essere questa una ragione di chiusura ideologica e pregiudiziale (che, peraltro, porterebbe a uno scontro frontale e violento) nei confronti degli uomini e delle donne immigrate, che non sono solo la “loro” religione e potrebbero anch’essi vedere la propria fede trasformarsi con la propria identità civile, come è avvenuto (per fortuna) alla gran parte dei cristiani. Anche con tanti fallimenti recenti, nessuno può dire che per i credenti islamici europei - uomini e donne, ragazzi e ragazze - sia impossibile per il prossimo futuro, riguardo alla condizione delle donne, quello che noi cristiani bianchi post illuministi, in fondo, riteniamo normale soltanto (absit iniuria verbis) dal Sessantotto in poi.
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