Le donne dello Swaziland dichiarano guerra al re poligamo: «vogliamo diritti»
Lo Swaziland è uno Stato minuscolo (17mila chilometri quadrati, più o meno come il Lazio) incastonato dentro al Sudafrica, tra le poche monarchie assolute rimaste al mondo e l’unica del continente africano. Questo luogo paralizzato nel passato, dove un re poligamo dallo scettro dorato possiede palazzi e jet privati mentre la popolazione (circa un milione d’abitanti) vive per lo più sotto la soglia di povertà, ogni tanto fa notizia per un unico evento, un’esplosione d’esotismo spettacolare e terribile: l’ultima domenica d’agosto, il sovrano Mswati III sceglie l’ennesima sposa fra trentamila ragazze che accorrono da lui per la cerimonia Umhlanga, o Danza delle Canne. Sono giovanissime, persino bambine di cinque anni, che cantano e danzano a seno nudo nella speranza di entrare nella dimora reale dalla porta principale. E così, nei suoi trent’anni di regno che festeggerà il 25 aprile, il monarca ha collezionato già 15 mogli e 24 figli, ma difficilmente eguaglierà il padre Sobhuza II: lui di mogli ne aveva 70, di figli oltre duecento e il suo regno era durato oltre ottant’anni, incoronato quand’era in fasce.
“Quella cerimonia viola i diritti delle donne e delle bambine e, nella confusione della folla che vi partecipa, le espone al rischio di abusi sessuali. Ma purtroppo è solo la parte più visibile della condizione drammatica delle donne nel mio Paese”. A parlarci è Lomcebo Dlamini, 43 anni, lunghe treccine, viso acqua e sapone e un ventennale impegno per l’uguaglianza di genere nel suo Swaziland. Avvocatessa, voce autorevole di una società civile che solo da poco sta nascendo all’ombra dello scettro reale, è co-fondatrice e segretaria di Lawyers for Human Rights, un’associazione che si batte per i diritti umani e i diritti delle donne. Obiettivi ampiamente disattesi nel Paese ancora fermo al 141° posto (su 187 Stati) nell’indice di sviluppo umano dell’Onu, e con l’incidenza di Hiv più elevata al mondo (il 26% della popolazione ne è affetta).
Nei giorni scorsi Lomcebo era a Ginevra, al Consiglio dell’Onu per i Diritti umani, per presentare con altre organizzazioni un report dettagliato sullo Swaziland dove si pretende più giustizia sociale, più libertà d’espressione e sforzi veri verso la parità di genere. Una battaglia sostenuta dalla Ong italiana Cospe, presente in Swaziland dal 1998 con vari progetti di cooperazione.
Lomcebo, che tipo di discriminazioni subiscono le donne nel tuo Paese?
La nostra è una società patriarcale, basata sulla tradizione. Anche se la Costituzione del 2006 ha sancito la parità di genere, molte leggi continuano come se niente fosse a discriminare le donne e le pratiche tradizionali le relegano in secondo piano.
Per esempio?
Per la tradizione, le donne possono possedere solo abiti e oggetti domestici ma non case né terre. Le vedove devono portare il lutto per cinque anni: è loro proibito coltivare i campi, dunque non possono produrre cibo per i figli e finiscono in povertà. Se insegnano nelle scuole statali devono andarsene perché gli enti statali sono legati alla monarchia, che è la guardiana della tradizione. E non possono entrare in politica. Ricordo una donna che stava per candidarsi alle elezioni del 2013: il marito morì e il capo della sua comunità decretò che lei doveva rinunciare, perché il lutto veniva prima di tutto.
Nel vicino Sudafrica le violenze sessuali hanno numeri da record. Com’è la situazione in Swaziland?
Molto simile. Da noi le donne sono considerate inferiori, dunque oggetto di abusi fisici e sessuali. Insieme a Cospe stiamo premendo per una legge che criminalizzi la violenza sessuale e domestica: le vecchie norme parlano solo di “aggressione”, ma con prevedono pene molto lievi. È una questione che ancora non viene presa seriamente. Per non parlare delle persone omosessuali, discriminate persino nell’accesso alla sanità: anche per loro ci stiamo battendo.
Hai mai corso rischi a causa del tuo attivismo?
È un’attività pericolosa: noi difensori dei diritti umani siamo costantemente sotto sorveglianza, poiché il governo pensa che danneggiamo l’immagine del Paese all’estero. Alcuni miei colleghi sono stati arrestati, e io interrogata. Anche le famiglie ne subiscono le conseguenze: ai nostri figli sono state negate delle borse di studio.
Cambierà qualcosa, dopo questi colloqui a Ginevra?
Lo speriamo. Ma per me è già un risultato importante che la società civile in Swaziland si stia finalmente unendo per chiedere più democrazia.