Beni e Diritti di prima necessità nella Repubblica fondata sul lavoro
Stiamo per salutare un anno consacrato alla Storia, un anno segnato da paure e sofferenze che ci restituisce sfide gigantesche, sfide che passano innanzitutto per una riorganizzazione complessiva dei fondamentali su cui si regge il nostro sistema sociale, per un nuovo patto di cittadinanza.
Abbiamo riscoperto l’importanza del diritto alla salute, la necessità di ripensare questo regionalismo per ripensare il sistema sanitario nazionale, abbiamo misurato i danni devastanti prodotti da decenni di politiche ragionieristiche, di tagli, di privatizzazione dei servizi essenziali, abbiamo finalmente aperto gli occhi rispetto allo stato pietoso nel quale è stata ridotta la nostra scuola, il nostro sistema di istruzione pubblica, abbiamo scoperto che di Italia non ce n’è una sola e nemmeno due, ma ce ne sono tante con potenzialità e problematiche persino antitetiche, dovremmo innanzitutto, eccoci al punto, riconoscere la necessità inderogabile di ripensare completamente il nostro sistema di welfare ripartendo dal diritto al lavoro, dal diritto ad un lavoro sicuro, dignitoso, dal diritto ad un lavoro che consenta ad ogni cittadino di questo Paese di programmare il proprio futuro.
Accanto ai medici, agli infermieri, al personale sanitario, a quanti hanno combattuto e continuano a combattere nella trincea più avanzata di questa guerra pagando un prezzo altissimo, ci sono coloro che in questi mesi hanno mantenuto in piedi il Paese, le donne e gli uomini che ci hanno consentito di sopravvivere, lavorando, spesso senza tutele, con contratti a termine ed orari tutt’altro che smart, subendo con gentilezza la nostra frustrazione, affidando il proprio destino al nostro senso di responsabilità, condannati a stare tra la gente, dunque a rinunciare anche al conforto di un abbraccio a fine turno, perché non si sa mai (Illuminante, sul punto, un pezzo a firma di Michael Sandel per il NYT pubblicato il 13 marzo scorso e pubblicato in italiano dal portale roars.it a metà aprile).
Stiamo parlando innanzitutto di chi lavora nei supermercati, di chi sta alla cassa e di chi mette a posto gli scaffali, stiamo parlando dei corrieri, delle donne e degli uomini che ci accolgono nei centri commerciali, di tutti coloro che in questi lunghi mesi hanno operato nel settore della logistica, parliamo degli operai delle aziende produttrici di beni di prima necessità, di tutti coloro che hanno tenuto acceso il motore del Paese, che hanno garantito la nostra quotidianità. Ingranaggi preziosi quanto essenziali al funzionamento della catena sociale, invisibili indispensabili alle vite di ognuno di noi, di cui ci siamo accorti quando tutto è venuto meno, quando s’è spenta la luce, quando ci hanno detto di restare in casa, di uscire, appunto, solo in caso di stretta necessità.
Il Covid ci ha costretto a riconsiderare la centralità di questi ingranaggi, la funzione essenziale che quei lavoratori, impiegati in mansioni che nella grande parte dei casi non richiedono una laurea o una particolare formazione, svolgono per la tenuta del sistema sociale. Detta altrimenti, la pandemia ha ribaltato completamente lo schema, ha messo nelle mani degli ultimi ingranaggi della catena, degli sfruttati e dei ricattati i destini del Paese.
Quei lavoratori non vogliono sentirsi dire grazie, non cercano articoli come questo, non vogliono essere definiti eroi. Vorrebbero semplicemente poter vivere una vita meno precaria, una vita dignitosa di lavoro e sacrifici, vorrebbero potersi sentire fino in fondo cittadini. E una società giusta avrebbe il dovere morale di riconoscere a quelle funzioni il giusto valore, avrebbe il dovere di riconoscerne l’importanza e l’essenzialità al di là dell’emergenza contingente, avrebbe il dovere di riconoscere la centralità di quei ruoli sociali sia in termini di compensi che di diritti e tutele.
Questo è l’auspicio con il quale ci piace salutare questo 2020 ed accogliere l’anno che verrà. L’anno di una rinascita che o sarà collettiva e giusta o non sarà.