Paul Ehrlich: "Il clima è una bomba ecologica ma possiamo ancora disinnescarla"
La bomba dell’ambiente non è ancora scoppiata però il conto alla rovescia ci lascia meno tempo del previsto. La buona notizia è che possiamo ancora disinnescarla: “Dando più diritti alle donne, puntando sui giovani che seguono Greta Thunberg e sul valore economico della Natura”. L’allarme per un “orribile futuro fatto di estinzioni di massa, corredato però dalle possibili soluzioni, è quello lanciato dal biologo e ambientalista Paul Ehrlich, presidente del Center for Conservation Biology dell’Università di Stanford. Ehrlich aveva avvisato il mondo già oltre mezzo secolo fa: nel 1968 il suo saggio The Population Bomb ammoniva sui disastri e sulle carestie che sarebbero state provocate a distanza di decenni dalla sovrappopolazione del pianeta. Oggi, insieme ad altri 16 studiosi, torna sul tema in un articolo pubblicato su Frontiers in Conservation Science, dove basandosi su oltre 150 studi mostra come la scala delle minacce alla biosfera – perdita di biodiversità, cambiamento climatico, pandemie e migrazioni di massa – sia molto maggiore di quanto si possa pensare.
Professor Ehrlich, come siamo arrivati a questo punto?
“L’ecologia ci insegna che quando una popolazione si avvicina al limite della capacità del suo ambiente di supportarla, la salute media dei suoi individui tende a diminuire, in modo da ridurre la crescita della popolazione. Il problema con l’Homo sapiens è che grazie al nostro ingegno siamo, per millenni, riusciti a sottrarci a questo meccanismo riequilibratore, e abbiamo trovato sempre nuovi modi per produrre più cibo, conquistare più aree, anche quelle in precedenza inabitabili, e sfruttare più risorse. Il nostro pianeta, però, adesso ci presenta il conto”.Quali sono le cose che dovrebbero allarmarci di più?
“Oggi quasi un milione di specie sono a rischio di estinzione. Il 40% delle specie vegetali sono considerate a rischio. La biomassa totale dei mammiferi selvatici è meno del 25% di quella del Tardo Pleistocene. Se potessimo pesare la vita terrestre su una bilancia, ci accorgeremmo che solo il 5% della biomassa totale dei vertebrati è costituita da mammiferi, uccelli, rettili e anfibi selvatici. Mentre il 59% è bestiame e il 36% esseri umani: abbiamo riconfigurato il mondo naturale per i nostri scopi, distruggendo biodiversità. Il tasso di estinzione dei vertebrati dal sedicesimo secolo ad oggi è 15 volte superiore rispetto al passato: ci stiamo avviando verso quella che gli studiosi chiamano la sesta estinzione di massa”.
Abbiamo già superato, anche per via della sovrappopolazione, la capacità del pianeta di supportarci?
"Nel 1960 ciò che l’umanità consumava in un anno corrispondeva al 73% di quanto il pianeta producesse in un anno. Nel 2019 siamo arrivati a consumare il 172% di quanto la Terra produce. Quest’anno, per via della pandemia, siamo scesi al 156%, ma è comunque un ritmo che il pianeta non può reggere a lungo”.
Cosa si può fare, allora?
“Una cosa che mi fa essere meno pessimista di un tempo è vedere quanto le giovani generazioni siano consapevoli del problema, e quanto siano desiderose di spingere nella giusta direzione: basta pensare al grande seguito di Greta Thunberg, che per me è un ottimo segno. Però purtroppo gli economisti, i leader politici e coloro che non sono interessati alla scienza sembrano non aver compreso bene il problema. Se decidessimo di agire cambiando il nostro modello di consumo, potremmo ancora farcela. Basti pensare al 1941: dopo che il Giappone attaccò gli Stati Uniti a Pearl Harbor, cambiammo rapidamente il nostro modello di consumo, e il cambiamento durò per quattro anni. Quando si riconosce l’esistenza di un problema, le società possono cambiare rapidamente. Se invece il problema viene ignorato… “
A quali soluzioni dare la priorità?
“Innanzitutto bisogna fare in modo che in tutto il mondo le donne abbiano pari diritti e opportunità di carriera, e abbiano accesso ai metodi più moderni e sicuri di contraccezione: è questo il modo per ridurre il tasso di riproduzione, e quindi per disinnescare la 'bomba' della sovrappopolazione”.
Per fare passi avanti sull’ambiente, è sufficiente spiegare il problema alla pubblica opinione con numeri e statistiche, o serve una narrazione emozionale?
“Quello che ormai si è capito è che le persone non vanno a cercare come prima cosa le evidenze scientifiche: invece cercano le cose che sentono dire dai loro amici, o dai loro riferimenti politici. Le emozioni hanno un grande peso nelle nostre decisioni. Credo che uno degli sbagli della comunità scientifica, oggi, sia quello di pensare che se si danno più dati e più prove alla gente, la gente si convincerà e indirizzerà il suo comportamento verso la soluzione dei problemi. In realtà, invece, abbiamo bisogno di un approccio più narrativo. Ad esempio, una delle soluzioni più efficaci nel ridurre il tasso di nascita sono le serie tv sviluppate dal Population Media Center. È un’organizzazione non-profit internazionale che prima, attraverso sondaggi, analizza la condizione delle donne in una data area del mondo, poi diffonde delle soap opera dove i diritti delle donne sono una parte importante della trama. E infine con altri sondaggi ex-post verificano che l’attitudine verso i diritti delle donne in quell’area sia migliorata. Operano in molti Paesi, come Brasile, Argentina, Messico, Colombia, Nigeria, Etiopia. Per produrre cambiamenti culturali servono anche le emozioni”.
E l’istruzione ha un ruolo?
"Proteggiamo solo ciò a cui diamo valore. Quindi è importante fare in modo che sin da piccoli qualcuno ci insegni ad apprezzare la natura. Bisogna rendere gli studenti più sensibili ai temi ambientali, ad esempio aumentando la quantità di ore riservate alle lezioni all’aperto, alle visite a parchi e fattorie”.
Se dovesse indicare una soluzione per contrastare il calo della biodiversità animale?
“Le nazioni dovrebbero quantificare il valore degli ecosistemi naturali, ovvero il valore dei servizi che gli ecosistemi offrono. Per fare due esempi: in Ruanda l’ecoturismo legato ai gorilla è uno dei maggiori 'motori economici' del Paese, e l’isola di Bonaire, nei Caraibi, trae il 40% del suo Pil dal turismo subacqueo. Una volta stabilito il valore degli ecosistemi, i governi avrebbero abbastanza informazioni per decidere investimenti per proteggerli. Ad esempio sostenendo economicamente le popolazioni locali perché proteggano gli animali invece di cacciarli”.
Un’ultima ragione per essere, nonostante tutto, ottimisti?
"Ha a che fare con l’Italia. Circa 25 anni fa sono stato ospite della fondazione Rockefeller nel suo centro di Bellagio, sul lago di Como. Lì un giorno ho incontrato Joe Biden, che allora era un senatore. Abbiamo avuto una discussione di un’ora sui temi ambientali, e mi ha molto impressionato per la sua conoscenza degli aspetti più critici. Come del resto si può vedere anche adesso dalla sua volontà di far rientrare gli Stati Uniti negli accordi climatici di Parigi. Insomma: c’è qualche speranza, dopotutto”.