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Rula Jebreal, la strada delle donne verso il futuro

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

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Mi rilasso con il giardinaggio. Rula Jebreal ce lo dice alla fine di un’intervista in cui, come un fiume in piena, ha parlato con passione di ciò che le sta a cuore: le donne, la loro difesa e il grande amore che la lega all’Italia, paese che le ha dato molto e del quale si sente “ambasciatrice morale”.

Giornalista, autrice ed esperta di politica estera per Cnn e il canale Msnbc, ha ricevuto riconoscimenti per il suo lavoro in Italia, negli Stati Uniti e nel Medio Oriente. Vive a New York, è visiting professor presso l’Università di Miami dove insegna giornalismo e comunicazione, è consigliera per il G7 sui temi di parità di genere, ha introdotto e intervistato l’ex presidente Barack Obama alla sua prima apparizione pubblica europea dopo aver lasciato la carica. E via così, dentro giornate tutte di corsa, nelle quali il giardinaggio apre una parentesi di calma. Rula è nata nell’ospedale italiano di Haifa, è arrivata in Italia nel 1993, all’età di 20 anni «grazie a una borsa di studio del governo Ciampi, come quelle che gli americani elargiscono a milioni di ragazze e ragazzi nel mondo per creare ponti tra culture diverse» racconta.

Erano gli anni di Mani Pulite, lei veniva dal Medioriente delle proteste soffocate. «In Italia ho conosciuto la democrazia, la libertà di protestare, ma anche la capacità di manipolare la verità. E io volevo raccontarla la verità, raccontare ciò che accade proprio per proteggere la democrazia. È lì che è nata la passione per il giornalismo, mestiere che faccio e del quale mi sento onorata: conosco l’opposizione, ho ricevuto critiche nel mio percorso professionale, a volte anche pesanti, ma non ho mai rischiato la vita, a differenza di tante giornaliste che sfidano i regimi autoritari».

Critiche, in alcuni casi razziste, ne ha avute molte, per le sue posizioni femministe e anti sovraniste. L’ultima valanga è arrivata lo scorso anno in vista della sua partecipazione a Sanremo. Portò un toccante monologo sulla storia di sua madre Nadia, abusata per anni dal patrigno e morta suicida. E su di lei bambina, cresciuta in orfanotrofio, confortata e sostenuta da una rete di donne a cui non smette di dire grazie. Il libro che ha appena scritto, Il cambiamento che meritiamo (Longanesi) parte proprio da lì, rilegge quella tragica storia e amplia il discorso sulla battaglia per i diritti delle donne: a che punto è il nostro Paese e il mondo? Chi minaccia le vittorie ottenute sino a ora? Perché la rappresentanza femminile è così scarsa e osteggiata? Quanto ancora durerà il gender pay gap? Questo e molto altro in un pamphlet che unisce inchiesta giornalistica e ricordi. E lancia un appello agli uomini perché si metta fine alla violenza contro le donne.

Come mai lo ha scritto ora? Proprio mentre Trump il simbolo del machismo mondiale stava andando via…Trump non è la malattia, è un sintomo. È andato via, ma il trumpismo è vivo e vegeto. La destra radicale, misogina, sessista e violenta, ha molti alleati nel mondo e manipola gli istinti feroci dell’opinione pubblica. Il presidente brasiliano Bolsonaro che dice a una parlamentare “se non fossi brutta ti stuprerei” sdogana e normalizza la violenza. In Europa si negano i diritti acquisiti dalle donne, come il diritto all’aborto in Polonia. Segno che la malattia ancora c’è.

Nel libro parla di pandemia ombra: che cos’è?Un morbo che da secoli infetta il nostro pianeta, il risultato di un sistema che tratta le donne, la metà dei cittadini, come fossero inferiori, alimentando un processo di normalizzazione della violenza. Nell’anno della pandemia abbiamo assistito all’escalation della violenza contro le donne. Sono le vittime più colpite dalla crisi, la coabitazione forzata ne ha gettate di colpo a milioni in una situazione di pericolo. Nelle democrazie occidentali si è registrato un incremento medio del 25-30 per cento di richieste d’aiuto ai centri antiviolenza. Immaginiamo quale inferno possa esserci nelle regioni più povere del pianeta.

Ha moderato una tavola rotonda dell’Onu su questo tema…Sì, sono stati coinvolti tutti i rappresentanti dei ministeri delle Pari Opportunità. L’obiettivo era chiarire, per avviare delle buone pratiche, che la violenza di genere non è un “danno collaterale” della pandemia sanitaria, ma ne è parte integrante.

Molte donne non denunciano: perché?Sono delle sopravvissute. In troppi casi sono state zittite. Come tantissime, prima e dopo di lei, mia madre Nadia non è stata creduta da chi doveva proteggerla, il suo aguzzino si è vantato di “averlo potuto fare perché nessuno glielo aveva impedito”. In questo modo si viene stuprate due volte: da un mostro e dalla società che non lo punisce.

Anche la libertà di movimento delle donne è sotto attacco…Due anni fa mia figlia Miral ha vinto una borsa di studio all’Università di Berkeley, in California. Ero estremamente orgogliosa. In quei giorni si svolgeva il processo all’aggressore di una ragazza, Chanel, che dopo essere stata stordita con l’alcol è stata stuprata dietro a un cassonetto dell’immondizia. Mia figlia era nella stessa area in cui è accaduto il fatto: io la pregavo di non uscire la sera perché non volevo che le accadesse quello che era accaduto a Chanel, a mia madre e a milioni di donne. Era un mio meccanismo di difesa. Mi stavo insegnando ad avere paura, facendo il gioco di chi difende un mondo patriarcale e ingiusto, nel quale una donna debba sentirsi sempre “preda”, per come si veste o perché esce di sera.

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Rula Jebreal fotografata da Alexei Hay. Styling Michela Buratti. Trucco Marianne Vegas Brandt. Capelli Billy Dee Williams. Abito, collana, soprabito Brunello Cucinelli.

Com’è finita la causa di Chanel?Nonostante le testimonianze contro l’aggressore, il giudice ha emesso una condanna a tre mesi. Tre mesi! Chi fuma marijuana ne prende molti di più. Nella mentalità di una società maschilista il corpo di una donna è uno spazio libero. Vince la logica del “te la sei cercata”, sei una provocatrice, il tuo corpo ha mandato un invito. Si attribuisce la responsabilità alle donne, rendendole complici della violazione della loro persona e della loro dignità.

Il giudice della causa di Chanel però è stato rimosso.Sì, Chanel ha scritto una lettera che ha toccato i cuori della gente. La protesta ha costretto quel giudice alle dimissioni. Con la stessa forza del MeToo che ha spazzato via tanti uomini di potere. Sono precedenti importanti, ora in qualsiasi posto di lavoro in America un uomo che si azzardi a molestare o a parlare in maniera misogina, rischia il licenziamento. Ci vuole un costo sociale per portare al vero cambiamento.

Che ruolo hanno gli uomini in questa battaglia?Biden, come aveva fatto Obama e come fa Trudeau in Canada, ha deciso di portare avanti un’agenda femminista, con molte donne nei posti chiave. Sono leader che fanno parte di una coalizione di “umanisti”, che sanno come per attuare una società giusta si debbano favorire la parità e la liberazione delle donne dalla paura. Un uomo maltrattato in un carcere egiziano, torturato come è stato per Giulio Regeni, fa parte della stessa spirale di sopraffazione e violenza: non a caso quel regime sta portando avanti una delle politiche più regressive, fino ad arrivare ai test di verginità per accertare le molestie denunciate. C’è una linea diretta fra la repressione delle donne e la violenza tout court.

In molti ambiti di potere le donne sono tenute in disparte. Si dice che quando acquisiscono diritti c’è un uomo che perde un privilegio…Gli uomini non sono abituati a condividere il potere e c’è poco costo politico per l’esclusione delle donne. Se il Pd, primo partito progressista italiano, si è ritrovato in mezzo a una furiosa polemica per non aver proposto neanche una ministra qualcosa non funziona. Se in Arabia Saudita una donna per uscire di casa ha bisogno di un guardiano uomo e da noi non se ne trova una degna di rappresentare il Paese non ci vedo molta differenza: c’è sempre bisogno di un uomo che decida per noi. Ma noi donne abbiamo un’arma potente: il voto. Che le donne saudite non hanno.

Lei vive a New York, ma segue molto l’Italia.Sì, soprattutto la politica, anche attraverso gli occhi di mia figlia Miral che ha 24 anni, vive a Bologna ed è molto attiva nelle battaglie civili e sociali. L’Italia mi ha salvato la vita, la borsa di studio di Ciampi mi ha portato in questo Paese, del quale mi sento di essere un’ambasciatrice morale. È il Paese che amo e vorrei vederlo evolvere. Abbiamo una posizione straordinaria nel Mediterraneo, scuole e università tra le migliori al mondo, giovani eccellenti che si fanno strada all’estero, nell’industria e nella ricerca, ma non riusciamo a capitalizzare questa forza. Sono cresciuta in un Paese in conflitto, ho avuto un’istruzione italiana, vivo negli Stati Uniti. Il mio traguardo è far emergere queste esperienze e far capire che possiamo diventare la società che vogliamo riflettendo sui temi che ignoriamo. Il mio monologo a Sanremo faceva parte del tentativo di ripartire da questi temi.

Quel monologo ha scosso un po’ tutti, lei per prima immaginiamo. Quanta fatica si fa a raccontare una storia come la sua davanti a milioni di spettatori?Avevo scritto un articolo per Newsweek sull’impatto che ha avuto su di me lo stupro di mia madre. Lo racconto anche nel libro. Non ne avevo parlato in Italia perché venivo invitata come esperta di politica estera. E francamente non ricordo grandi dibattiti televisivi sulla violenza alle donne, ricordo solo accuse alle sopravvissute o insulti. Mi sono detta che Sanremo poteva essere l’occasione per portare temi sociali forti su una piattaforma che parla a tutta la nazione, una possibilità di risvegliare le coscienze. Amadeus e Rai1 sono stati coraggiosi, hanno accettato una conversazione necessaria.

Sfidando molte polemiche, “la valletta pro Islam” è stata la più lieve.Ricordo che chiedevano a gran voce un contraddittorio. Io parlo contro gli stupri, dicevo, cosa vogliono in trasmissione, uno stupratore che dice che è bello sopraffare le donne?

Sia lei che sua madre siete state accolte da una comunità. Viene in mente il proverbio “Ci vuole un villaggio per crescere un bambino”.È vero, nel caso di Nadia l’amore è arrivato troppo tardi, non in tempo per impedirle di uccidersi dandosi fuoco. Alle donne violentate qualcosa muore dentro: sono vive, mangiano, si sposano, fanno figli ma non si scioglie il grumo di dolore che pesa nel petto. Per questo serve la giustizia, perché tante di loro possano riappropriarsi della propria vita e del proprio corpo. Io ho avuto la fortuna di crescere dentro una rete di donne straordinarie, nel collegio fondato a Gerusalemme da Hind al-Husseini, attivista dei diritti umani, convinta che l’istruzione sia l’arma più potente per ottenere l’indipendenza. Valorizzava l’ambizione, il coraggio, la resilienza e la confidenza in noi stesse. E sono cresciuta con la logica delle più grandi che aiutano le più piccole. C’è una frase di Toni Morrison che dice: “Se hai un minimo di potere dallo alle donne, se hai un minimo di libertà libera altre donne”.

Lei come lo fa?Ho scelto le parole, ho scelto di schierarmi, di denunciare e dare voce a chi non ce l’ha. Vorrei gettare ponti sulla strada tracciata da altre donne. All’Università Americana di Roma ho creato un programma di borse di studio per rifugiati siriani del quale hanno beneficiato anche alcune ragazze. Mi piace il concetto di borsa di studio. Ho scelto l’Italia perché dà la migliore istruzione e so che loro, che stanno per laurearsi, daranno a loro volta qualcosa in cambio.

Lei è una donna combattiva e piena di ideali che segue con energia. C’è un momento in cui abbassa la guardia?Mi piace il giardinaggio. E le lunghe camminate “in cuffia”: ascolto musica e libri, mi rilasso nella natura perché il cambiamento si radica lì. Nei momenti in cui perdo la speranza e magari mi dico che il movimento femminista ha fallito, guardo alla natura e alla sua forza di rinascita. La primavera puoi rimandarla ma non puoi mai cancellarla.

 

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