Isabelle Adjani, un racconto senza veli
Partiamo dal suo nuovo film. Una storia cupa e dura, su una dottoressa che cerca inutilmente di aiutare i dipendenti di un call center a difendere la propria salute. Perché ha scelto un film così impegnato?«Ho voluto dare un viso, il mio viso, a persone che non hanno un volto ma solo una voce - e che quella voce non riescono a farla sentire. Mi piacciono film come questo, o quelli di Ken Loach, che denunciano l’alienazione dei luoghi di lavoro. Sono film che fanno una differenza. Ne farei anche di più se ne avessi l’occasione: ma forse i registi pensano che io preferisca interpretare solo principesse o regine…».Si considera un’attrice impegnata?«Non sento il bisogno di prendere posizione apposta, non sono una maratoneta dell’impegno. Ma se ho la possibilità di intervenire in un modo che mi sembra efficace lo faccio. Sono un’artista, non un’intellettuale: quindi deve essere una causa che sento profondamente, deve colpire le mie emozioni, non essere solo una decisione razionale. Ho scelto questo film perché in questo momento la società mi sembra sull’orlo di una crisi esplosiva: in Francia ci sono stati molti suicidi per burn-out da lavoro».
E sente il bisogno di impegnarsi in nome delle sue radici algerine?«Non voglio mettere piede, non voglio mettere neanche un alluce nel campo della politica, ma mi interessa il campo dei cittadini. Mi piace mescolare la mia voce alle loro: e se la mia voce ha più eco di tante altre sui mezzi d’informazione non è per una mia scelta. L’impegno diretto però lo lascio ad altri, come la mia amica Yamina Benguigui, anche lei nata in Francia da padre algerino, regista di documentari importantissimi prima di diventare ministro per la francofonia. Anche il mio personaggio, Carole Matthieu, è impegnata civilmente, fa uno sforzo solidale, e il suo sforzo ha un valore particolare perché ha un volto di donna. In effetti tutti i personaggi che ho interpretato con più piacere sono donne che hanno avuto destini complessi, dolorosi. Sono anche i miei personaggi preferiti in letteratura».
Quali, per esempio?«Mi piace moltissimo come Jane Austen parla delle donne. E Racine, tutto quello che so sull’amore, sulla sofferenza d’amore, l’ho letto nelle sue pagine. El'ho ritrovato poi nelle pagine di Françoise Sagan, una grande scrittrice che non è ancora valutata come merita. Certo personaggi come questi si trovano più in film d’epoca che d’attualità. E così nascono tanti miei personaggi in film in costume, Camille Claudel, un’artista che vive tra mille sofferenze, o la regina Margot, alla quale viene impedito di vivere la sua vita, di scegliere l’amore, di fermare una guerra di religione. Ho sempre scelto i miei ruoli così: qualcosa mi parla in un personaggio femminile e io, come donna, rispondo».
Ora che è più impegnata in quanto franco-algerina, ha in programma film che tocchino il tema delle sue radici?«Ho avuto diverse proposte ma non mi hanno convinto. La storia era troppo manichea, o superficiale, o melodrammatica. Il mio prossimo film parlerà di migranti. Ha una storia che mi interessa molto, io ne sono co-produttrice ma non ho ancora un regista, quindi è troppo presto per parlarne. E poi ho con Yamina un progetto che realizzeremo, prima o poi. La storia di tre sorelle che devono affrontare l’imminente scomparsa del padre malato, un padre algerino molto ingombrante - come il mio e quello di Yamina».
Lei è anche produttrice di Carole Matthieu. Lo fa spesso?«Ho cominciato con “Camille Claudel”, ma era troppo presto: negli Usa un’attrice che produceva il proprio film era già normale, in Francia invece è sembrato strano. Penso che sia un ottimo modo per avere ruoli interessanti anche quando non si è più giovani. Sento spesso attrici famose lamentarsi di non avere più proposte di ruoli interessanti, ma io sono convinta che i ruoli adatti alla nostra età dobbiamo costruirceli noi. Io ho deciso di non tener conto della mia età. Ho orrore che mi venga ricordata la mia età, ho orrore di ricordarmene io stessa e non per civetteria ma perché la società lavora a ricordartelo in continuazione. E non lo fa mai per valorizzare la maturità della donna ma sempre con disprezzo: non per niente è uno dei temi preferiti dei giornali scandalistici. È molto sessista e misogino nel mondo del cinema, è un atteggiamento che bisogna capovolgere ma sta a noi capovolgerlo. Infatti si è formato un comitato di attrici americane e francesi, da Woopi Goldberg a Juliette Binoche, che mettono in comune progetti e script interessanti. E comunque...»
Comunque?«Paradossalmente oggi tutte le donne sono molto più giovani di un tempo. È come se tutte le donne fossero ringiovanite di vent'anni. Le attrici di quarant'anni ne dimostrano venticinque, quelle di cinquanta, trenta... In realtà più le attrici europee di quelle americane, ora che ci penso. Ma comunque, quando Gloria Swanson in "Viale del tramonto" dice "Ho cinquant'anni...”, io che guardo il film oggi penso che ne dimostra settanta. Questo non riguarda solo le attrici, ma tutte. Per questo mi stupisce ancora di più che le donne non reclamino di non essere trattate in base alla loro età biologica».
Nel 1983 lei ha fatto un disco di grande successo con Serge Gainsbourg. Come ricorda quell’esperienza?«Gainsbourg diceva che detestava le cantanti che avevano troppa voce, e che invece amava le attrici perché ne hanno solo un soffio... È stato davvero divertente perché non dovevo dimostrare nulla ma solo partecipare a un percorso musicale, in un campo per me del tutto nuovo. Un’esperienza eccitante, ma irripetibile».
Lei ha lavorato con tanti registi tra i più famosi della storia del cinema. Quali preferisce?«Sul set amo i registi che sono come direttori d’orchestra, sanno far lavorare bene gli attori. Oggi invece della recitazione spesso si occupa un coach professionista - mi sembra una follia. E certo mi piace lavorare con persone che con i loro film sono in grado di far passare dei messaggi, ma ho sempre paura della delusione sul piano umano. Preferisco restare nella condizione di spettatrice di un cinema che amo piuttosto che avere una delusione cercando di lavorare con un regista famoso».
Nel suo discorso al festival di Marrakech ha detto che molti personaggi che ha interpretato sono stati una sofferenza. Come si libera dei suoi personaggi?«Beh, di sicuro riesco a liberarmene, se no non sarei qui! Credo però che se c’è un pericolo nella nozione di interpretazione è nel fatto che l’inconscio non sa che tu stai recitando. Per di più io tendo a scegliere di interpretare proprio le situazioni che nella vita cerco di evitare, quelle che danno stress, dolore, disperazione. Questo è il bello del mio lavoro ma è anche un pericolo. Però gli anni servono a qualcosa, ho imparato a disintossicarmi lasciando spazio alla vita. Senza fare poi niente di speciale; vado in campagna, faccio sport, faccio la spesa, vado a yoga...»
Che differenza c’è tra recitare in teatro o per il cinema?«A teatro c’è un lavoro di gruppo particolarmente impegnativo. Anche sul set io cerco di lavorare in squadra, considero i tecnici i miei primi spettatori e se li sento freddi mi dispero. In teatro però c’è in ogni spettacolo una vibrazione che coinvolge il pubblico, quelle persone che sono sedute lì, non possono andare alla toilette o al bar ma devono stare ferme, non possono sfuggire a un’esperienza che unisce attori e pubblico e che, quando va bene, produce una forma di comunione sublime. Ci sono spettacoli che ho recitato da giovanissima e che ancora vivono nei ricordi di persone che incontro. È un ricordo indimenticabile di cui non possono portare nessuna prova, non ne esiste nessuna registrazione, ma che ancora li rende felici. E diversi da prima, perché quel viaggio interiore li ha portati a scoprire qualcosa di nuovo di se stessi. Il cinema, stranamente, funziona al contrario: il lavoro sul set è più breve ed effimero di quello sul palcoscenico, però il film resta».
C’è un filo rosso tra i film della sua carriera?«Il legame tra i miei film che preferisco è forse il rapporto padre figlia… Che sia presente o scomparso la figura del padre è sempre importante. Mi sono resa conto di aver sempre cercato mio padre nel mio lavoro, anche quando era ancora vivo. Nella maggior parte dei film che ho fatto io ho parlato a mio padre. Come tutti i padri algerini non era uno che esprimeva facilmente i suoi sentimenti. Aveva un grande pudore, il senso del segreto. Quando dici a un padre così che vuoi diventare attrice gli dai un colpo. Fare l’attrice significa mostrare tutto, raccontare tutto. Mi ci è voluto moltissimo tempo prima di riuscire a lavorare senza aver l’impressione di tradire la legge di mio padre. E in effetti attraverso i ruoli che ho interpretato ho cercato di spiegargli il perché della mia scelta, che prevedeva l’esposizione se non l’esibizione di sé e quindi poteva sembrare un tradimento di tutto quello che lui mi aveva inculcato. E ancora oggi, anche se può non sembrare difficile, le assicuro che non è facile. Malgrado tutto quello che ho fatto per emanciparmi da questo diktat paterno credo che sia un peso che mi accompagnerà fino alla fine della mia vita. Per questo il film di Yamina mi interessa molto: sarà per me la possibilità di avvicinarmi a questo in maniera più diretta, di dire a mio padre: ecco quello che mi hai impedito di fare, di essere, di dire perché mettevo in crisi il tuo ideale di donna, un ideale che passava necessariamente attraverso costrizioni e divieti. Ancora oggi per me fare questo mestiere è un po’ trasgredire il suo divieto».
E sua madre? Nel suo ultimo film c'è un bel rapporto tra Carole Matthieu e la figlia, è forse l'unica cosa che si salva in un mondo che vaa rotoli. La protagonista a un certo punto dice alla figlia: «Sono orgogliosa di te». È qualcosa che anche sua madre avrebbe detto di lei?«Mia madre era molto preoccupata per me, la sua presenza è stata molto sfocato nella mia vita. Sarà che lei era tedesca e con mio padre corrispondevano agli stereotipi: lei del nord, luui del sud... C'era una grande contraddizione di fondo nella mia vita familiare. E lei è stata molto meno importante di mio padre nella mia vita: quello che olevo, quelloche ho sempre voluto, è stato rendere felice mio padre, e riuscire a far sì che lui mi capisse. Ma fermiamoci qui: quest'intervista sembra una seduta psicoanalitica!»
Lei prende spesso posizione nelle lotte che riguardano i diritti delle donne...«Sì, perché quando i diritti delle donne sono rimessi in questione sono in pericolo i diritti di tutte le minoranze. Attaccare i diritti delle donne è il cavallo di Troia che permetterà di cancellare i diritti delle altre categorie. E le donne sono sotto attacco dovunque, dalle leggi sull’aborto che vengono combattute a casi come quello di Jacqueline Sauvage, la donna francese che ha ucciso il marito durante l’ennesima violenza e che non si è vista riconoscere la legittima difesa, e dopo la condanna ha ottenuto la grazia con grande difficoltà. Anche al cinema succedono cose sconvolgenti. Una giovane attrice ha raccontato di recente di essere stata molestata sul set prima da un attore, poi dallo stesso regista. Una cosa così fuori tempo: ci si immagina quei vecchi film con il regista col sigaro che ci prova con l’attrice...»
A lei è mai successo qualcosa del genere?«No, a me no. Io sono stata forse protetta dal fatto di aver iniziato molto giovane. Ma stanno uscendo fuori ora storie davvero terribili: come quella di Flavie Flament, la presentatrice che ha raccontato di esser stata violentata da adolescente da David Hamilton, che poi si è ucciso. Sono storie di donne alle qualiè stata spezzata la vita, rubata la bellezza, e a volte con la complicità magari inconscia delle loro stesse madri. E quando queste donne dopo decenni sentono il bisogno di rivelare la verità, epr poter continuare a vivere, la loro denuncia viene considerata poco importante, un racconto come tanti. A volte sento anche donne - perché le donne quando sono misogine sono peggio degli uomini! - dire "ma sì, che vuoi che sia, gli uomini sono così, si sa...". Ed è sconvolgente anche la storia della violenza a Maria Schneider sul set di “Ultimo tango a Parigi”».
Ma Bernardo Bertolucci l’ha smentita categoricamente. Ha detto che la scena era descritta chiaramente nella sceneggiatura, e che la violenza era recitata, assolutamente non reale.«Ah sì? Beh, ne sono contenta per lei. Anche perché io ricordo bene la mia prima scena di nudo: in quelle situazioni il regista è il tuo baluardo, la tua difesa. Io avevo rifiutato “L’estate assassina” per più di un anno, perché non potevo immaginare di recitare nuda finché mio padre era vivo. In realtà non pensavo che il mio corpo fosse bello: mio padre - ciao papà, sì, si parla ancora di te! - non voleva specchi grandi, in casa, quindi io non ho mai visto il mio corpo a figura intera, pensavo di essere solo un tronco. Quando ho accettato, alla fine, mio padre era molto malato, sapevo che non avrebbe fatto in tempo a vedere quel film. Poi sul set il regista mi ha chiesto se volevo mettere una camicia, in una scena in cui scendevo le scale nuda, e ho detto no. Se lo avessi fatto avrei tradito il personaggio ma anche me stessa, e mi sarei messa in pericolo. È paradossale, ma una volta che avevo accettato di recitare quella trasgressione dovevo farlo fino in fondo: se fossi scesa a compromessi avrei rotto l’equilibrio tra realtà e recitazione».
Da anni lei vive in Svizzera per difendersi da paparazzi e fan. Com’è il suo rapporto con la fama?«È pesante perché devi fare i conti con una proiezione di te sulla quale non hai nessun controllo, un fantasma che accende attese alle quali non puoi mai corrispondere. Ma per fortuna sono un'attrice e non una rockstar: i cantanti fanatizzano le folle, la musica è un vettore di isteria molto più potente dei film. Oggi poi con i social è tutto ancora più difficile: quando ho iniziato io il tempo dei media era più accettabile. Oggi fare carriera non significa cercare la propria voce di attore, in base alle proprie qualità, ma iniziare un business, scegliere strategie di comunicazione per la propria immagine. Io mi sono tirata fuori da questo, è stata una mia scelta, ma penso che in questi tempi dominati dai social network sarò sempre più emarginata. Ma davvero non potrei fare come questi giovani attori che di sé danno tutto, che stanno sempre tra selfie e tweet, creando una dipendenza che colpisce sia chi divora sia chi si fa divorare, come un fuoco che si consuma in continuazione e continuamente rinasce».
Lei ha avuto molta fortuna nella sua carriera. Ma crede al destino, alla "baraka" araba?«Sono cresciuta con un padre superstizioso, quindi non posso certo rinnegare completamente la fortuna. E sì, mi sento fortunata. Le prove nella vita non mi sono state risparmiate, decisamente no: però ogni volta mi è stato concesso anche l'aiuto necessario ad affrontarle. E ogni giorno dico grazie - anche se non so a chi».