guerriere che osano dire no ai patriarcati a ogni latitudine- Corriere.it
L’abito bianco di Hope che cancella il suo passato di prostituta schiava. Gli occhi allungati di Agnèse che fendono le tenebre del conflitto nella Repubblica Democratica del Congo. Il grido di Lucy che abbatte l’omertà su un crimine di Stato. Il cammino instancabile di Angela e Rosaria contro la mafia, per la verità. Emanuela Zuccalà«Le guerre delle donne»InfinitoIl libro Le guerre delle donne, di Emanuela Zuccalà, raccoglie trenta voci dall’Africa al Brasile fino all’Europa, unite nell’opporsi a ingiustizie e violenza. In un intreccio di reportage giornalistico e colloquio intimo, le storie delle protagoniste toccano i nodi più cruciali dei diritti femminili violati, regalandoci ritratti profondamente rivoluzionari e indimenticabili. Riportiamo alcune foto e una parte dell’introduzione
Algeri, Algeria. La psicologa e femminista Meriem Bélaala ha aperto una delle prime case-rifugio, nel Paese nordafricano, per donne vittime di violenza. Da anni si batte contro il Codice della Famiglia, una legge che considera la donna minorenne a vita, imponendole un tutore uomo per firmare qualsiasi contratto.
Parlare di diritti delle donne a certe latitudini potrebbe equivalere, semplicemente, a promuovere i diritti umani. Dico “potrebbe” poiché ho in mente il libretto di Chimamanda Ngozi Adichie, Dovremmo essere tutti femministi, nel quale la scrittrice nigeriana pone una questione interessante: «C’è chi chiede: “Perché la parola femminista? Perché non dici semplicemente che credi nei diritti umani, o giù di lì?”. Perché non sarebbe onesto. Il femminismo ovviamente è legato al tema dei diritti umani, ma scegliere di usare un’espressione vaga come “diritti umani” vuol dire negare le specificità del problema del genere. Vorrebbe dire tacere che le donne sono state escluse per secoli. Vorrebbe dire negare che il problema del genere riguarda le donne, la condizione dell’essere umano donna, e non dell’essere umano in generale». Concordo con la sostanza del suo discorso, tuttavia non trovo che l’espressione “diritti umani” sia vaga. Perché se certi abusi compiuti sulle donne – e penso soprattutto alle mutilazioni genitali, ai matrimoni precoci e forzati, agli aborti selettivi, agli stupri usati come armi di guerra – fossero annoverati, pensati tra le violazioni dei diritti umani, forse si comincerebbe già a restituire alle vittime quella condizione d’uguaglianza, di pari dignità, che l’abuso ha strappato loro. Forse si renderebbe la loro sofferenza più universale, liberandola da qualsiasi categoria, compresa quella del femminismo, che ha tante sfaccettature e verso la quale certa opinione pubblica nutre tuttora fastidio o indifferenza.
Milano, Italia. La ginecologa Adele Teodoro, da volontaria, porta avanti un progetto pilota di prevenzione sanitaria unico in Italia: un ciclo di visite ginecologiche alle donne in carcere, con screening, pap test, ecografia e diagnosi precoce.
Certo, sono femminista anch’io, ma quando osservo alcune ferite sui corpi e dentro le anime delle donne mi chiedo se non si renda loro più giustizia parlando di diritti umani orribilmente violati, per dilatare la visuale oltre le caselle del femminismo e delle quote di genere. Per questo amo una frase trovata nel libro Half the Sky dei giornalisti premi Pulitzer Nicholas Kristof e Sheryl WuDunn, che elevano l’attivismo per i diritti delle donne a un’epocale campagna di civiltà: «Nell’Ottocento la sfida morale cruciale fu lo schiavismo – scrivono –; nel Novecento la battaglia contro il totalitarismo. Noi crediamo che nel nuovo secolo la sfida morale fondamentale sarà la lotta per l’uguaglianza fra i sessi in tutto il mondo».
Da sinistra: Fortaleza, Brasile. Maria da Penha ha subìto violenza dal marito, che l’ha ridotta su una sedia a rotelle. Ha portato il suo caso davanti alla Corte interamericana per i diritti umani che ha imposto al Brasile di emanare la prima legge contro gli abusi sulle donne, che infatti è nota come “legge Maria da Penha”. ■Nouakchott, Mauritania. L’autrice del libro con una donna tuareg fuggita dal nord del Mali dopo la crisi umanitaria del 2012-2013. ■El-Ayun, Sahara Occidentale. Elghalia Djimi ha trascorso oltre tre anni in una prigione segreta marocchina, dove ha subìto ogni genere di torture. Oggi è una donna-simbolo della lotta non violenta del popolo saharawi per l’indipendenza del loro territorio, il Sahara Occidentale, l’ultima colonia d’Africa. ■Città del Messico, Messico. Leticia Gutiérrez Valderrama dedica la sua vita ai migranti centramericani che, nel viaggio della speranza verso gli Stati Uniti, si ritrovano spesso in balìa dei cartelli criminali messicani. Ha promosso l’apertura di 60 case-rifugio lungo l’intero Paese, che danno accoglienza e ristoro ai fuggiaschi. Lei stessa è nel mirino dei narcos. ■Parigi, Francia. Marie Claire Moraldo è originaria della Costa d’Avorio, dove da bambina ha subìto la mutilazione genitale. Da tempo vive a Bordeaux e qui ha fondato un’associazione che dà sostegno psicologico e medico alle donne di origine africana portatrici della sua stessa ferita. ■Milano, Italia. La ginecologa Adele Teodoro. ■Gulu, Uganda. In uno dei Paesi più omofobi del continente africano (qui l’omosessualità è punita con l’ergastolo), Jay Abang ha fondato l’unica associazione nelle zone rurali del nord che dà sostegno, anche sanitario, alle persone Lgbti, sopportando a testa alta ritorsioni e minacce. ■Puerto Maldonado, Perù. Brandi Gatica è un’attivista ambientale che tenta di difendere l’Amazzonia peruviana dall’avanzare delle minieri d’oro illegali che stanno depredando la foresta
Come per qualsiasi grande tema, sono convinta che una storia individuale, un volto da riconoscere o immaginare, possano fare presa sui lettori più di tanti, seppure scioccanti, report statistici. E per fare presa non intendo provocare sensazionalismo bensì l’esatto opposto: comprensione, riflessione, curiosità di approfondire e, nel finale, empatia. È il tracciato che ho provato a seguire raccogliendo queste testimonianze di donne incontrate in vari angoli del globo, oltre che in Italia naturalmente. Sono vicende personali che offrono sguardi reali e sfumature insieme intime e universali a varie tematiche su cui di solito si dibatte a colpi di dati e d’indignazione: dalla violenza domestica allo stupro come arma di guerra; dal traffico di bambine alle battaglie ambientaliste viste con gli occhi delle donne. C’è poi il capitolo aftermath, l’indomani di una guerra, quando i riflettori dei media si spengono e restano i cocci da ricomporre, e non è scontato che tornino tutti al proprio posto: nella Repubblica Democratica del Congo, in Sahara Occidentale, nel nord-est della Nigeria, in Mali, terre bruciate in cui le donne pagano il prezzo più alto delle atrocità fra gli uomini. E c’è tanta migrazione in questo libro, perché la condizione dei migranti si deteriora, tragicamente e proporzionalmente alle sterili politiche dei muri di confine. Ci sono tanti campi profughi, tante ingiustizie. Tanta Africa, perché l’ho frequentata molto in questi anni.
Beira, Mozambico. Elena cammina nel buio del Grande Hotel Beira, un tempo l’albergo più lussuoso dell’Africa australe e oggi fra i più grandi slum dell’area
L’Africa delle mutilazioni genitali femminili, delle schiave dei terroristi di Boko Haram, delle omosessuali trattate come criminali. E c’è tanto stupro, tanta violenza. È un libro doloroso, per me che l’ho scritto, e forse lo sarà anche per voi che state per leggerlo. Posso solo assicurarvi che è un dolore inondato di luce: la vedrete brillare negli sguardi implacabili di donne che combattono, che si riappropriano della loro dignità e della loro vita, che aiutano altre donne a uscire dal personaggio di vittima per entrare in quello di protagonista. Ci sono anche i percorsi privati di donne comuni che un giorno si scoprono meno fragili di quel che pensavano, capaci di anticonformismo, libertà e ribellione contro ruoli stereotipati che qualcuno voleva per forza cucire loro addosso. Come Patrizia che, ritrovando la sua signora senza volto, non esita a sovvertire una vita tranquilla in nome di un senso di giustizia. Come la madre che grida contro la mafia e la dottoressa che decide di camminare al fianco delle donne più cattive. Come la vedova, superstite di una strage che ci ricorda come le guerre siano più vicine di quanto ci illudiamo, che si ritrova a combattere, lei stessa, per proteggere il suo dolore e i suoi ricordi. Sono tutte storie vere, riportate fedelmente, senza tentazioni romanzesche che a me, una cronista vecchio stampo, non appartengono. Ma con un guizzo di fantasia, queste storie potrebbero apparire in dialogo fra loro. Come se queste signore, ragazze e bambine tanto distanti per età, cultura, collocazione geografica e sociale, nascondessero un filo segreto che le tiene unite. E che non è, banalmente, il genere femminile.
Le protagoniste hanno, tutte, osato dire no a qualcosa che rientra in quella subalternità femminile che, dicevamo, va sradicata in nome dei diritti dell’umanità intera. Meriem, Jay, Angela, Solange, Erbenia e le altre sono entrate in guerra contro la violenza, la morte sociale che le stava annientando dopo uno stupro, la mentalità crudelmente arretrata del loro contesto, destini di sfruttamento che parevano già scritti. Nelle loro guerre diventano autrici di gesti eroici, alcuni minimali e altri immensi, privati oppure ampiamente comunitari, ma sempre attuati con una caparbietà e una coerenza che, ai miei occhi, rendono i loro vissuti speciali e di profonda ispirazione. Ed è stato avvincente concentrarmi su queste guerre femminili in un periodo in cui vediamo sempre più donne in prima linea per tentare di cambiare il mondo. Penso alle protagoniste delle rivolte contro il dittatore bielorusso Alexander Lukashenko, nell’estate del 2020: Sviatlana Tsikhanouskaya, Veronika Tsepkalo e Maria Kolesnikova, schierate con altre migliaia di donne che, in un Paese privo di libertà, manifestano vestite di bianco brandendo fiori e palloncini. Penso alla giovane e regale Alaa Salah in Sudan che, pure lei in abito bianco, guida i canti nelle proteste contro il presidente Omar al-Bashir, destituito nell’aprile del 2019 al termine d’un trentennio di potere assoluto. E, prima ancora, alle donne libiche di Bengasi che nel 2011 gridano contro Muammar Gheddafi. Come l’avvocatessa Salwa Bugaighis, che nel 2014 fu assassinata ma le sue battaglie resteranno nella storia del femminismo africano. Le donne si sono mobilitate anche in Yemen contro il presidente Saleh e una di loro, Tawakkol Karman, ha vinto il Nobel per la Pace. Le donne algerine hanno animato il dissenso contro il fino ad allora irremovibile presidente Bouteflika, costretto a ritirarsi nel 2019. Penso alle fondatrici del #blacklivesmatter, Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi, che già nel 2012 avevano lanciato il movimento per i diritti degli afroamericani, delle persone transgender, delle donne, e hanno finito, nel 2020, per travolgere gli Stati Uniti con la denuncia degli abusi della polizia sui neri. Penso a Nadia Murad, irachena yazida, da schiava di Isis a prima ambasciatrice Onu per i sopravvissuti alla tratta di esseri umani, fino al Nobel per la Pace nel 2018. Alle indiane che, fra il 2019 e il 2020, scuotono le piazze del subcontinente contro una legge sulla cittadinanza fortemente discriminatoria. Alle brasiliane che si scatenano contro il nuovo presidente Jair Bolsonaro, campione del maschilismo più tracotante. E penso anche al movimento #MeToo, che ci ha pungolate tutte a dibattere sulle molestie sessuali, spesso incoraggiando le vittime a denunciare.
Sono tutti segnali che certe guerre le donne le vincono. E delle altre guerre, quelle che non vincono, rimane comunque il valore della lotta, delle voci che riempiono spazi finora deserti e muti. Rimane l’importanza di essere riuscite a piantare pietre miliari lungo cammini che le nuove generazioni troveranno meno impervi da percorrere, e porteranno a compimento.
2.Originale della cover. Autrice: Valeria Scrilatti per Zona/Contrasto. Gamboru-Ngala, Nigeria. Donne in cammino con i figli in mezzo a una tempesta di sabbia, nel Nordest della Nigeria martoriato dagli attacchi terroristici di Boko Haram.
Le guerre delle donne (Infinito edizioni) si trova in libreria e nei principali bookstores online, ma è anche possibile riceverlo direttamente dall’autrice, con una dedica, scrivendole in privato su Facebook oppure su Instagram. Un piccolo esperimento per stringere un contatto diretto con i lettori, in questo periodo in cui non si possono tenere presentazioni dal vivo.
28 marzo 2021 (modifica il 28 marzo 2021 | 23:54)
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